Partiamo dalla svalorizzazione del lavoro sanitario. Il processo è in atto e tutto viene trascinato in basso. E in tal contesto anche la medicina subisce un processo di deprezzamento: da un lato essa viene ridotta a genere di consumo; dall’altro viene utilizzata come mezzo di polemica politica tra i diversi schieramenti.
Un esempio del primo tipo è la diffusione di programmi televisivi e rubriche su i principali quotidiani in cui selve di esperti affrontano le diverse questioni dal meteorismo alla disfunzione erettile convinti di fare educazione sanitaria e offrire un counselling ai cittadini; un esempio dell’altro sono le due interviste al neo presidente della Conferenza delle Regioni
Stefano Bonaccini e al presidente del comitato di settore
Massimo Garavaglia comparse quasi simultaneamente nel mese di gennaio su Quotidiano sanità; interviste in cui sugli stessi temi (finanziamento SSN, disponibilità di risorse, sostenibilità, etc.) i due esponenti politici, membri della stessa Conferenza delle Regioni, mostrano posizioni diametralmente opposte.
Qualcuno potrebbe giustamente sostenere che l’appartenenza ad un organismo istituzionale non deve necessariamente comportare un appiattimento delle posizioni, ma tra avere dei punti di vista diversi a sostenere tesi tra loro incompatibili ce ne corre, e comunque ai tempi della presidenza Errani una polemica così aspra non si sarebbe vista perché a prevalere sarebbe stato uno approccio di tipo bipartisan.
La svalorizzazione della sanità passa poi attraverso i dispositivi della medicina totalmente amministrata in cui è la regolamentazione esterna che cerca di disciplinare aspetti importanti della erogazione di servizi e prestazioni senza alcun coinvolgimento dei diretti erogatori, i professionisti. Un modello in cui la medicina perde la sua finalità fondativa di “ars curandi” (subordinata in modo esclusivo a
scienza e
coscienza del medico) per diventare oggetto della politica amministrativa perchè fonte di sprechi su cui intervenire con misure di razionamento (esplicito o implicito che sia).
I limiti dei professionisti
Di questo stato di cose i medici e i loro corpi di rappresentanza non sono esenti da colpe. La professione avrebbe dovuto attivare da tempo un processo di auto-regolazione e autopoiesi procedendo alla elaborazione di protocolli di appropriatezza, sfoltendo le numerose prestazioni inutili o obsolete; lo stesso dicasi per quanto riguarda l’appropriatezza organizzativa con la progressiva semplificazione dei luoghi di cura (Reparto, DH, Day service) per le prestazioni a minore
setting assistenziale su cui si è invece taciuto nel timore di perdere funzioni e incarichi di vertici.
E così la regolamentazione esterna ha prodotto dei mostri traducendosi sostanzialmente in tagli orizzontali e alla ceca che impattano sulla qualità dei servizi perché privi di una vera razionalità. Per amore di verità dei cambiamenti sono nel frattempo intervenuti e come ricordato su QS dal direttivo di
Slow Medicine, 29 società scientifiche e associazioni professionali italianeaderenti al
progetto
Fare di più non significa fare meglio-Choosing Wisely Italy, hanno già identificato 145 pratiche a rischio di inappropriatezza che pertanto non dovrebbero più essere prescritte
Slow Medicine infatti sostiene giustamente che “le prestazioni a rischio d’inappropriatezza non (devono essere) imposte dall’alto, ma si basano sull’assunzione di responsabilità dei medici e degli altri professionisti sanitari nelle scelte di cura.
Al centro dell’interesse permangono la relazione e il dialogo con i pazienti e i cittadini che sono informati sui benefici e i possibili danni di esami e trattamenti, per giungere ad una decisione condivisa”
Il taylorismo in medicina
Sul numero del 14 gennaio 2016 della prestigiosa rivista “
The New England Journal of Medicine”
Pamela Hartzband e
Jerome Groopman firmano un editoriale dal titolo “
Medical Taylorism”
Gli autori dopo avere ricordato come il principio guida del taylorismo sia la convinzione che “esiste una sola strada ottimale per raggiungere un determinato obiettivo e che rientra tra le responsabilità del manager quella di fare in modo che gli operai non si discostano da questa” sostengono che “non appena il sistema sanitario è stato sottoposto a una progressiva pressione di tipo economico finalizzata al raggiungimento dei medesimi obiettivi, il taylorismo ha iniziato a permeare anche la cultura della medicina”.
Per gli autori “I clinici che seguivano il modello di produzione
snella della Toyota cominciarono ad auspicare che la cura dei pazienti dovesse seguire delle procedure standardizzate non dissimili da quelle utilizzate nelle fabbriche di automobili” sicché con il tempo il “loro obiettivo è diventato quello di determinare quale fosse il tempo ottimale della interazione medico-paziente al fine di giungere a una sua standardizzazione”.
Si procedette quindi a introdurre nei dipartimenti di emergenza una cartella clinica elettronica “
the electronic health record” (EHR) con il lodevole obiettivo di rendere immediatamente disponibili le informazioni sul paziente e migliorare la sicurezza identificando le interazioni farmacologiche pericolose. La cartella elettronica tuttavia obbliga alla formulazione di specifiche domande rendendo così impossibile, a causa dei soli 15-20 minuti previsti per ogni visita, le interviste aperte. E questo si traduce nella impossibilità di acquisire ulteriori utili informazioni non codificate dal sistema e di rilevare le aspettative e i punti di vista del paziente. L’effetto finale non è stato dunque l’ottimizzazione del tempo ma un aumento del carico di lavoro (con successivo burnout) e soprattutto una diminuita attenzione del medico nei confronti dei pazienti con invitabile frustrazioni di entrambi.
L’editoriale termina con il seguente ammonimento “un buon percorso di cure richiede tempo e non esiste un unica via ottimale per trattare diverse affezioni. Quando faceva riferimento alla medicina, Taylor aveva torto perché l’uomo viene prima del sistema”.
E dunque (si potrebbe aggiungere) una “buona” medicina è quella che si fa su misura del paziente pur muovendosi sulla base di conoscenze certe e rifiutando quelle generalizzazioni che non tengono conto della unicità della persona.
Una posizione dunque non dissimile da quella comparsa tante volte su QS per la quale una “Buona” medicina non è quella “costruita sulla carta” ma quella che si riconosce integralmente nei principi ippocratici
La buona medicina
Fin dalle sue origini (e il
corpus ippocratico ne è la riprova) la medicina come
ars curandi ha ricompresso in sé i tre generi di sapere in cui Aristotele aveva suddiviso la conoscenza scientifica. Nella sua proto-tassonomia infatti Aristotele distingueva: le
scienze teoriche (fisica, matematica e soprattutto filosofia) attinenti tra tutto ciò che è a quel che è con necessità; le
scienze pratiche (in primis la politica, con una parte essenziale e preminente, l’etica e, con parti subordinate, l’arte militare, l’economia e la retorica) dirette ad orientare l’azione umana, a promuovere atti, comportamenti; le
scienze poietiche la poesia e le tecniche tese alla produzione di oggetti e al fare.
La peculiarità della medicina ippocratica consisteva nell’appunto nel racchiudere in sé queste componenti.
Il sapere teorico con la fisiologia dei 4 umori (che Galeno perfezionerà successivamente e che rappresenterà il paradigma dominante fino al 17°secolo ) e la interazione tra individuo e mondo (i venti, il clima e i diversi temperamenti); il sapere pratico con il codice di comportamento del medico che avrà la sua massima espressione nel giuramento (che ancora oggi i medici sottoscrivono al momento della laurea); il sapere poietico con l’utilizzo della terapeutica sia nella prescrizione del “regime” (alimentazione, attività fisica, attività sessuale, bagni, vomiti, lassativi, etc.) e sia nella cura “chirurgica” delle ferite, delle fratture, delle lussazioni etc.
La medicina ippocratica (che ancora oggi rappresenta la principale medicina praticata) dunque non è nata come
scienza particolare ma come
arte della cura in quanto essa per i suoi obiettivi
deve necessariamente utilizzare campi scientifici diversi. La medicina pertanto è un sistema epistemico complesso in cui le diverse componenti sono fuse in un unico corpo e in cui la conoscenza (il sapere) non può essere disgiunta dalla coscienza (l’etica) e della capacità pratiche del medico.
I saperi
La “buona” medicina dunque deve continuamente rinnovare le sue conoscenze e di conseguenza i medici devono orientare la loro pratica restando “nel vero” delle conoscenze valide scientificamente. Restare “nel vero” non significa tuttavia agire “il vero” perché le capacità euristiche del “nel vero” sono limitate dai paradigmi dominanti che possono non essere “il vero”
Luigi Pagliaroe altri (Recenti Prog Med 2015; 106: 308-315) fanno a tale proposito il caso di George Washington che nel dicembre 1799 si ammala di una presumibile epiglottite batterica e viene salassato per un totale di 3,75 litri di sangue in 9-10 ore, mentre gli vengono applicati dei vescicanti e gli viene somministrato un purgante. Washington è curato dai più illustri medici degli Stati Uniti, che nella relazione pubblicata dopo la sua morte non manifestano nessun dubbio sulla buona qualità delle cure prestate.
I medici infatti erano ancora fedeli alla teoria dei 4 umori e ritenevano in totale buona fede che la malattia fosse una discrasia nella composizione di medesimi e una condizione di disequilibrio che doveva essere corretta (come oggi si corregge un’acidosi con i bicarbonato) attraverso la rimozione dei liquidi in eccesso.
Avere consapevolezza che la conoscenza procede per salti e rottura epistemiche deve dunque indurre a valutare sempre criticamente le teorie e pratiche prevalenti e correnti (comprese linee guida e buone pratiche) perché esse potrebbero essere falsificate nell’arco di pochissimi anni. Per fare un esempio più recente voglio solo ricordare che intere generazioni di medici (tra cui la mia) hanno considerato la digitale il farmaco di base nello scompenso cardiaco mentre oggi nessun cardiologo la prescriverebbe se non in casi particolarissimi.
L’etica
La medicina senza etica è l’orrore che i criminali medici nazisti hanno compiuto nei campi di concentramento riducendo il soggetto e il suo corpo in mero oggetto di indagine “scientifica” privo di ogni connotato di dignità e umanità. Un orrore che rimarrà indelebilmente nella storia della medicina e che purtroppo si è perpetuato in tempi recenti in una clinica privata del Nord Italia dove i malati sono stati sottoposti a interventi chirurgici demolitivi per il solo fine di ricavarne guadagno. Il principio etico universalmente valido rimane per la medicina quello dell’imperativo categorico kantiano
“agisci in modo da trattare l'umanità, tanto nella tua persona quanto nella persona di ogni altro, sempre nello stesso tempo come un fine, e mai unicamente come un mezzo”
Nulla di più va detto perché nell’imperativo categorico c’è il rispetto per il singolo paziente come per l’intero genere umano con un raggio di azione che riguarda il presente ma che si estende anche al futuro e quindi alle generazioni che verranno. Un imperativo che è dunque valido per il clinico, per il medico del lavoro, per l’igienista e per l’epidemiologo.
Le expertises del medico
Il medico deve costantemente rivalutare e rinnovare le sue capacità di intervento. Un medico che non si pone criticamene nei confronti del suo
modus operandi facendo tesoro degli errori non è un medico che segue i principi ippocratici.
Il tipo di razionalità che ci è concessa in dote non è quella “olimpica” ma è quella “limitata” e quindi soggetta sempre e costantemente a
bias specie nelle situazioni di incertezza. Chi mostra arroganza nella sua vita professionale è un ignorante che sbaglia illudendosi di non sbagliare. Serve tuttavia un ulteriore cambio di passo che faccia uscire il professionista dall’isolamento in cui spesso svolge il suo lavoro. Indispensabile è allora la creazione di reti di professionisti di diversa disciplina che mettano in comune le loro expertises per affrontare problemi clinici più complessi.
E questo vale soprattutto per i medici di famiglia che con le nuove tecnologie potrebbero essere inseriti in
ospedali virtuali condividendo il lavoro clinico con gli altri specialisti. Un sistema per dare risposte adeguate alle necessità cliniche dei pazienti, migliorando l’appropriatezza delle prescrizioni senza codici e codicilli di nessuna utilità.
La medicina razionale
La medicina razionale è quella che partendo dalle sue basi fondative e ad esse non rinunciando, si adegua alla società e ai suoi inevitabili cambiamenti in un processo in cui i medici devono necessariamente e responsabilmente essere i protagonisti. La medicina infatti non è solo l’atto che si consuma nel rapporto medico-paziente, essendo costantemente satura di funzionamenti e obbligazioni sociali: le (mutevoli) logiche istituzionali, il finanziamento pubblico, le leggi sanitarie, i codici di comportamento i sets di aspettative dei professionisti e dei pazienti. Un mondo materiale e simbolico che si deve “conformare” costantemente con il campo istituzionale suo proprio.
Per questo i processi di riforma sono necessari, ma essi necessitano di pratiche concertative tra i diversi attori senza di che rimangono scritte sulla sabbia.
Una constatazione quasi banale che pure viene dimenticata dal regolatore pubblico che, sotto la pressione di pressioni che nulla hanno a che fare con i fini della medicina, pretende di entrare nel gioco a gamba tesa non risolvendo nessuno problema. Una pratica politica di nessuna utilità e che al contrario accentua il quadro di difficoltà che attraversa l’intera società del nostro paese
Roberto Polillo