Migliorato nell’ultimo decennio lo stato di salute degli italiani che risulta complessivamente buono, con un aumento, nei 10 anni trascorsi, della speranza di vita per entrambi i generi (passata dal 2002 al 2012 per gli uomini da 77,2 a 79,6 anni e per le donne da 83,0 a 84,4 anni) ed una diminuzione del tasso di mortalità infantile, pur con differenze non da poco tra Nord e Sud (nel 2011 il tasso di mortalità infantile è stato di 3,1 morti per 1.000 nati vivi, in diminuzione rispetto al 2006 in cui era di 3,4; si noti però che un nato residente nel Meridione ha una probabilità di morire nel primo anno di vita 1,3 volte superiore rispetto a uno residente al Centro e 1,4 volte superiore rispetto a uno residente al Nord).
È quanto rileva la XII edizione del
Rapporto Osservasalute (2014), un'approfondita analisi dello stato di salute della popolazione e della qualità dell'assistenza sanitaria nelle Regioni italiane presentata oggi a Roma all'Università Cattolica. Pubblicato dall'Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle Regioni Italiane che ha sede presso l'Università Cattolica di Roma e coordinato dal Professor
Walter Ricciardi, direttore del Dipartimento di Sanità Pubblica del Policlinico Gemelli di Roma e dal dottor
Alessandro Solipaca, Segretario Scientifico dell’Osservatorio. Il Rapporto è frutto del lavoro di 195 esperti di sanità pubblica, clinici, demografi, epidemiologi, matematici, statistici ed economisti, distribuiti su tutto il territorio italiano, che operano presso Università e numerose istituzioni pubbliche nazionali, regionali e aziendali.
Il Rapporto però evidenzia come sia “sempre più urgente incentivare l’offerta di servizi di prevenzione e di politiche socio-sanitarie ad hoc che riducano la probabilità dei cittadini di ammalarsi e fronteggino i bisogni sanitari di una popolazione sempre più anziana, con l’insorgenza sempre maggiore di più malattie croniche (comorbilità) nello stesso individuo”.
Allarme tumori: aumentano quelli prevenibili. Se l’aumento della prevalenza di malattie croniche, legata all’invecchiamento della popolazione, è una prospettiva futura, assai allarmante è il quadro odierno proposto dal Rapporto che riferisce di un preoccupante aumento dei nuovi casi di tumori prevenibili. Infatti, tra le donne, i nuovi casi di tumore al polmone, tra il 2003 e il 2013, sono aumentati del 17,7%, così come quello alla mammella che registra un incremento del 10,5%. Tra gli uomini l’incidenza del tumore al colon retto, nello stesso periodo, è aumentata del 6,5%.
Pesante anche il bilancio del cancro del polmone nelle donne "vecchie fumatrici". Tra il 2003 e il 2013, l’incidenza del tumore al polmone è aumentata di circa il 18,0% (tra gli uomini l’incidenza si riduce del 23,3% nello stesso periodo; l’aumento tra le donne è imputabile al fatto che cominciamo a vedere gli effetti del fumo sul sesso femminile, ovvero si ammalano le donne che hanno iniziato a fumare negli anni ’70) e l’aumento di circa il 10% dell’incidenza del cancro alla mammella. Tra gli uomini l’incidenza del tumore al colon retto è aumentata intorno al 7%.
A fare le spese di questo peggioramento del quadro epidemiologico sono soprattutto le regioni del Mezzogiorno, nelle quali gli aumenti sono stati spesso più marcati. Questi sono segnali molto preoccupanti che testimoniano con forza l’esigenza di investire in prevenzione, soprattutto se si considera che, laddove questa attività è stata svolta si sono ottenuti risultati molto positivi, infatti, il numero di nuovi casi del tumore alla cervice uterina, nel decennio considerato, risulta in forte diminuzione (-33,3%).
Il ritardo del nostro paese su questo fronte e il deficit di risorse destinate alla prevenzione rischiano di far vacillare la salute degli italiani, già sotto l’attacco della congiuntura economica negativa che sta colpendo ormai da anni anche il nostro paese: la precarietà che sta ormai divenendo una condizione strutturale mette a rischio la tenuta dei servizi sanitari offerti ai cittadini e anche la salute reale e percepita degli individui (sempre più numerosi sono gli studi che dimostrano ad esempio che essere lavoratori precari mina il benessere psicofisico della persona).
I punti deboli. Restano quelli di sempre i punti deboli della salute degli italiani, sintetizzabili nei pessimi stili di vita che restano tali, probabilmente anche in correlazione a condizioni di vita sempre più precarie e difficili nel quotidiano. Un dato esemplificativo tra tutti, la sedentarietà che aumenta in maniera significativa per entrambi i generi: da 34,6% a 36,2% negli uomini e da 43,5% a 45,8% nelle donne. Come dimenticare, poi, il problema persistente di peso dei cittadini del Bel Paese: continua il trend in crescita della percentuale di italiani sovrappeso e obesi, complessivamente, il 45,8% dei soggetti di età ≥18 anni è in eccesso ponderale (era il 45,4% nel 2009, il 45,9 nel 2010, il 45,8 nel 2011).
“Siamo entrati in una nuova fase strutturale, nella quale incertezza e precarietà non saranno condizioni eccezionali, ma una consuetudine – avverte il professor
Walter Ricciardi. Partendo da questa considerazione, appare quanto mai preoccupante lo scenario che si prospetta per il settore della sanità, uno dei pilastri del sistema di welfare del nostro Paese”.
“È opinione diffusa che l’incertezza e la precarietà condizioneranno, sul piano politico, gli interventi e le riforme necessarie per un moderno stato sociale, mentre avranno effetto, sul piano individuale, sia sulle condizioni di salute, sia sulle scelte di vita – sottolinea il professore. Il dottor
Aldo Rosano, dell’Accademia Romana di Sanità Pubblica, in un suo recente lavoro ha dimostrato che chi vive condizioni di precarietà lavorativa sperimenta un rischio più elevato di cattiva salute (+40%). I dati, già oggi, segnalano palesi elementi di incertezza. In particolare desta preoccupazione la contrazione delle risorse pubbliche a disposizione per la sanità (la spesa sanitaria pubblica è passata da 112,5 miliardi di euro del 2010 a 109,3 del 2013)”.
Preoccupa, infine, l’inadeguatezza degli investimenti destinati alla prevenzione e l’aumento della cronicità a causa dell’invecchiamento della popolazione. A questo riguardo, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico - OCSE (Health at a Glance Europe 2012) evidenzia che il nostro Paese destina solo lo 0,5% della spesa sanitaria totale all’attività di prevenzione, quota che ci colloca agli ultimi posti tra i 30 Paesi dell’OESE.
Infine, l’Istituto Nazionale di Statistica (Rapporto annuale sulla situazione del Paese nel 2013) paventa uno scenario futuro dal quale si evince che la prevalenza di malati cronici gravi sarà superiore al 20%, nel 2024, e salirà ad oltre il 22% nel 2034; si tratta, quindi, di un quadro epidemiologico caratterizzato da prevalenze sensibilmente più elevate di quella attuale che si attesta intorno al 15%.
Il quadro futuro generato dalla dinamica demografica non avrà solo implicazioni sulla spesa per l’assistenza sanitaria per acuti, ma anche sulla spesa per l’assistenza socio-sanitaria, afferma il dottor
Alessandro Solipaca: “i modelli di previsione della Ragioneria Generale dello Stato testimoniano che l’invecchiamento della popolazione comporterà un aumento di spesa sanitaria, infatti questi prevedono che la quota di spesa sanitaria pubblica in rapporto al Pil raggiungerà il 7,5% nel 2035, superiore di mezzo punto a quella odierna attestata al 7,0%”. A questo si aggiunge, continua il Segretario scientifico dell’Osservatorio, il fatto che “l’invecchiamento acuirà il problema della spesa per l’assistenza agli anziani. Attualmente il peso per questo tipo di assistenza grava in parte sulle spalle delle famiglie, ma in futuro questo diverrà insostenibile, sia dal punto di vista economico sia da quello sociale. La dinamica demografica che si è andata sviluppando nel corso degli anni disegna strutture familiari con uno o due componenti e con molti anziani soli, ciò causerà il dissolvimento strutturale della rete di assistenza di natura informale, tipica della realtà italiana. Pertanto, venendo meno il ruolo tradizionale della famiglia, sarà il sistema di welfare a dover intervenire con nuove risorse e soluzioni innovative economicamente sostenibili”.
Stefano A. Inglese