Si può misurare la felicità e dunque la buona salute che genera? Se si, quali sono i fattori determinanti? A questa domanda ha cercato di rispondere il Rapporto, “
The (W)health of nations. Salute e felicità”, elaborato dal Ceis di Tor Vergata in collaborazione con la Fondazione Angelini che per cinque mesi, a partire dal giugno scorso, ha seguito oltre 100mila persone in 19 paesi europei.
Il rapporto sembra sfidare quel paradosso di
Albert Einstein secondo il quale
non tutto ciò che conta può essere contato e non tutto ciò che è contato conta. Sfidare questo paradosso significa chiedersi appunto, si può misurare la felicità? Già, perché entrano in gioco dimensioni della vita personale che facciamo fatica a vedere chiuse all’interno dei numeri. Ci si inoltra in un territorio che pone degli interrogativi su dove mettere le risorse e su quali settori investire per produrre e generare dei contesti che producano felicità.
Come ha spiegato
Leonardo Becchetti, professore di Economia Politica dell’Università di Tor Vergata, illustrando i dati della ricerca partendo dall’incidenza dell’investimento in spesa sanitaria “un punto in più di spesa per la salute sul Pil produce nella popolazione over 50 una riduzione dello 0.1 del numero medio di malattie croniche. Per cui ogni euro di spesa sanitaria ne produce non meno di sette lordi, quattro netti, come beneficio in termini di variazione di soddisfazione di vita della popolazione”.
Il sovrappeso e l’inattività fisica, ha aggiunto Becchetti “sono due fattori con impatti molti significativi sulla variazione delle malattie croniche nella popolazione”. C’è poi da considerare il fattore “far del bene”, ovvero il volontariato che “insieme ad una buona qualità di vita fatta di relazioni affettive migliora la funzionalità e riduce le patologie, tra cui anche la probabilità di contrarre i tumori con effetti di risparmio considerevoli sul sistema sanitario. In termini di rischio relativo, chi non fa volontariato ha probabilità quasi doppie di ammalarsi di tumore nei tre anni e mezzo successivi”.
“In particolare i costi dell’obesità – ha spiegato
Vincenzo Atella, Direttore del Ceis, – sono notevolmente maggiori non tanto per la fascia d’età dopo i 55-60 anni, ma nella fascia d’età tra i 35 e i 55 anni. Ovvero in quel periodo in cui l’individuo è privo di patologie importanti, però a causa di uno stile di vita sbagliato, può incorrere in patologie serie che comportano costi più elevati”.
Anche l’istruzione ha un’incidenza positiva sulla vita, ricorda ancora Becchetti “In quasi tutto il mondo i laureati vivono di più di chi ha solo la scuola dell’obbligo. La differenza va dai 10 anni negli Stati Uniti ai 3 anni stimati in Italia. La nostra ricerca indica su questo specifico punto che le persone con livelli più elevati di istruzione hanno migliori funzionalità fisiche e mentali e si ammalano meno di quasi tutte le patologie eccetto i tumori (ad esempio la quota degli ipertesi tra la popolazione con licenza elementare è 41% contro il 30% tra i laureati, quella del diabete del 15% contro l’8%). Il lavoro indica altresì che ciò dipende sia dall’adozione di stili di vita più sani (con l’eccezione della percentuale di fumatori che non è più bassa tra i laureati), sia dalla capacità di utilizzare meglio l’informazione medica ricevuta”.
Infine ultimo elemento da considerare è “la salute percepita. Partendo dalla domanda come pensi sia la tua salute? Le persone che, a parità di tutte le altre condizioni (incluse quelle correnti di salute), dichiarano una salute povera hanno una probabilità di variazione nel numero di malattie croniche fino a 3-4 volte superiori nei tre anni successivi rispetto a coloro che dichiarano uno stato di salute eccellente”.
Atella ha quindi concluso con un suggerimento di politica sanitaria, invitando tutti ad un impegno maggiore nel far capire l’importanza dei corretti stili di vita “soprattutto nelle generazioni più giovani cercando di mettere in piedi politiche che favoriscano un comportamento più salutista da parte della popolazione. Specie quella più giovane, perché è lì, in quegli anni che si formano quei comportamenti che ci accompagneranno fino all’invecchiamento e, a seconda di come si invecchia, questo si riverbera sui costi del Sistema sanitario”.
Sul volontariato e sull’importanza del suo ruolo è intervenuto anche il sottosegretario al Lavoro e alle Politiche sociali,
Luigi Bobba, “Bisogna rendere produttivi quelli che vanno in pensione per evitare che subiscano il calo emotivo che la pensione può generare. In Italia c’è un investimento nel civile per cui il volontariato è in gran parte sulle spalle di quella generazione che avendo accumulato professionalità nel lavoro la sta reinvestendo in termini di tempo e motivazioni nel volontariato. C’è dunque un capitale rilevante di disponibilità individuale che va intercettato e convogliato in attività di terzo settore”.