Francesco Albertiha definito la libera professione dei medici come “non libera professione” cioè come una sorta di prigione, (
QS 5 dicembre). E’ un
ossimoro che sicuramente evidenzia delle contraddizioni. La sua proposta è ripensare, in invarianza di sistema, la libera professione semplicemente rendendola più libera.
Costantino Troise anche lui parla spesso di
ossimori lamentandosi dello stato giuridico del medico (dipendente/dirigente), o riferendosi alla 229 (autonomia/gestione) e propone di voltare pagina ripescando l’idea della “categoria speciale” (
QS 26 novembre). Anche
Riccardo Cassi si lamenta degli
ossimori per sottolineare e non a torto il problema della spersonalizzazione del medico (professione/burocrazia) (
QS 27 settembre) e teorizza la definizione di un nuovo ruolo e di una nuova area contrattuale .
Che succede? Gli
ossimori sono entrati in crisi? Non funzionano più? O più semplicemente non convengono più?
La professione medica rispetto all’ultimo mezzo secolo si è configurata come probabilmente la più ossimorica e la più ambigua fra tutte le professioni dello stesso genere. Il suo status originario di professione liberale è sopravvissuto proprio sotto forma di ossimori nei tanti cambiamenti con i quali questa professione ha dovuto fare i conti: tempo pieno e tempo definito, extramoenia e intramoenia, dipendenza e convenzione, professione libera o dipendente e libera
e dipendente ecc. L’ambiguità, nel senso etimologico del termine, è stata sino ad ora la sua strategia. (“
Ambiguus” vuol dire “spingere da una parte e dall’altra”).
A questa ambiguità originaria è corrisposta strumentalmente quella dello Stato che ne ha fatto la giustificazione principale per sottopagare i medici, cioè per scaricare una parte dell’onere retributivo sui cittadini. La questione della libera professione di cui si lamenta Alberti, è probabilmente la più paradossale: nasce non priva di sovrastrutture ideologiche sull’esclusività, con un intento moralizzatore quindi per difendere il sistema pubblico dalle speculazioni di molti medici, ma diventa malgrado le buone intenzioni, il più iniquo strumento di privatizzazione del sistema, configurandosi allo stesso tempo come una grave fonte di iniquità e di ingiustizia sociale (indagini conoscitive del Senato, rapporti dei Nas. Sulla questione ho già scritto (
QS 8marzo 2012;
QS15 marzo 2012), mi limito a sottolineare che l’errore o se si preferisce il limite culturale della riforma Bindi fu quello di aver tentato maldestramente di razionalizzare gli ossimori ma non di superarli quando già allora avremmo potuto farlo.
18 anni fa, il quadro dei problemi legati alla professione medica, era già molto chiaro al punto che io stesso, da sindacalista, pubblicai un libro con uno strano titolo “
la rivolta dei minotauri, il lavoro in sanità da problema a soluzione” (Laterza 1995). Sostenevo che gli operatori metà tecnici e metà burocrati, metà dipendenti e metà liberi professionisti, nell’interesse primario del malato e delle professioni bisognava superarli a favore di un genere nuovo di operatore…che già allora chiamai “
autore”. L’idea era di liberare il minotauro (un ossimoro a sua volta) da un labirinto burocratico seguendo la strada dell’autogoverno del lavoro.
Oggi da quel che sembra, gli ossimori, quindi i minotauri, sono in una crisi che si configura come crisi dell’ambiguità, cioè del poter essere nel mondo in più modi diversi, e che ci dice che oggi l’ambiguità non paga più. Forse per questo alcune professioni più di altre, sono alla ricerca di nuove ontologie professionali, mentre altre tradiscono le loro irrisolte frustrazioni di ruolo inseguendo senza senso competenze ibride e marginali. La domanda che si pone Troise è quanto mai rivelatrice: ”fino a che punto il pubblico impiego è coerente con la natura professionale, la specificità e la delicatezza dell’attività medica”. Altrettanto rivelatrice è la frase di Alberti quando scrive della “colpa di essere dipendenti” quasi a dirci che quella che una volta era una condizione vantaggiosa e tollerante oggi è diventata una condizione svantaggiosa e intollerante. E probabilmente è proprio così.
Ormai la spesa pubblica per le ragioni note agli occhi di molti operatori sta diventando professionalmente svantaggiosa e penalizzante. Da qui l’idea di alcuni, ancora detta sottovoce, di potersi emancipare dai condizionamenti della dipendenza pubblica, magari allargando i rapporti convenzionati a tutta la dipendenza; ma anche l’idea di altri che al contrario pensano di uniformare tutto ad una dipendenza pubblica totipotente. Ma mentre in un caso o nell’altro le professioni cercano faticosamente una ridefinizione giuridico contrattuale, le ambiguità, continuano a circolare come se il loro tempo non fosse finito. Le Regioni hanno iniziato ad esaminare un atto di indirizzo (ancora in bozza) con il quale pur mantenendo lo schema della convenzione per i medici di base propongono di riallocare molte autonomie riconosciute alla convenzione in tema di organizzazione del lavoro, direttamente alle Regioni. I motivi sono i più diversi, molti condivisibili, ma intanto l’idea di base è che la convenzione debba essere profondamente ripensata all’insegna di nuovi obblighi contrattuali pubblici.
Le mie proposte da molti anni vanno in un'altra direzione…
l’autore è un genere nuovo di operatore che supera ossimori e ambiguità perché è tempo, da molto tempo, di cambiare. Autonomia in cambio di responsabilità misurata sulla base dei risultati. Tra dipendenza pubblica e lavoro convenzionato, tra ossimori e ambiguità, scelgo la strada dell’autogoverno garantito e controllato del lavoro a qualsiasi livello del sistema. Di questo parleremo il 18 dicembre in un seminario di studio Anao Assomed.
Ivan Cavicchi