Il bollettino della “sanità che muore” è in ebollizione. Rileva fallimenti a iosa, un esagerato ricorso alle procedure concordatarie, una perdita occupazionale che comincia a rappresentare una cifra consistente, il sistema distributivo all’ingrosso in ginocchio e le banche sulla difensiva. Neppure l’industria se la passa bene, con il ritardo endemico degli incassi dei crediti per fornitura dal sistema sanitario, che è oramai arrivato alle stelle.
In mezzo, la collettività estenuata, con i diritti sociali che appaiono in alcuni territori addirittura inesigibili e il sistema delle Regioni che stenta a rinnovarsi in termini di concepimento della salute, supponendo di modificare le cose in meglio semplicemente con i programmi scritti meglio di quanto si è fatto in passato.
Il problema è rappresentato dalle risorse che non ci sono che obbliga ad intervenire con le riforme strutturali, delle quali tutti parlano ma nessuno fa. Non solo nella sanità. Quest’ultima è stata del tutto assente nella recente campagna elettorale. E’ stata trattata come se tutto andasse bene. Non è affatto così, stante la eccessiva mobilità passiva in alcune regioni contrapposta a quella attiva, “capitalizzata” dalle poche regioni che arricchiscono il loro fondo sanitario con le povertà degli altri.
Tutti sanno che il percorso utile a far sì che la stessa migliori è alquanto complesso, ma va affrontato e risolto. La riforma strutturale comporta preliminarmente una corretta analisi dell’esistente e la capacità a disegnare il nuovo, non intaccando i criteri che rappresentano i pilastri del SSN: l’universalità, l’uniformità e la globalità.
Riforma strutturale non corrisponde però a revisionare l’esistente, intendendo per tale il ricorso a qualche restauro così come avviene oramai da diversi anni, bensì a progettare un nuovo più funzionale a perseguire l’interesse generale. L’interesse della collettività che, impoverita com’è oltremisura e destinata a rimanere tale per almeno un decennio, sarà costretta a rinunciare, per gran parte delle sue componenti sociali, alle prestazioni cosiddette compartecipate. Ciò in quanto sarà obiettivamente costretta a non affrontare gli insopportabili
ticket. L’interesse della sanità privata ad esistere, magari in una più fattiva concorrenza con il pubblico, sì da mettere entrambi in corsa per quel miglioramento delle prestazioni rese da conseguire attraverso una radicale revisione dell’istituto dell’accreditamento e di una più corretta conclusione dei contratti, da rendere disponibili attraverso procedure agonistiche.
Non solo. Dovrà ripristinare le differenze infrastrutturali che fanno tanta differenza tra la sanità che funziona e quella che appare inesistente, nonostante l’instancabile impegno degli operatori sanitari ivi impegnati. Il tutto dovrà misurarsi con un federalismo fiscale che avanza (Governo, dixit) con la componente economica del finanziamento ordinario fondato sui costi
standard e, quindi, con l’abbandono della spesa storica. Una rivisitazione economica-finanziaria che è, tuttavia, ingessata sulla perequazione infrastrutturale, ferma ai provvedimenti approvati (d.lgs. 88/2011 e DM 26 novembre 2010), funzionale a garantire uguale punto di partenza alle Regioni ed evitare che una concorra in Ferrari e le altre in bicicletta. Allo stesso modo è immobile sul problema del debito pregresso che è fermo lì, attesa la difficoltà di molte regioni (quasi tutte) a chiudere in equilibrio i loro bilanci nonostante un blocco del
turnover che, nel centro-sud, fa inorridire per la desertificazione che determina in termini di servizi e prestazioni essenziali, soprattutto ospedaliere. Per non parlare dell’assistenza territoriale che manca del tutto, ad essere buoni, alla metà degli italiani.
Dunque, riforma c’ha da essere! Ma come? Prioritariamente occorre individuare la revisione dell’indigente, al quale la Costituzione riconosce la gratuità delle prestazioni garanti del diritto alla salute. Un indigente, quindi, destinato a superare la sua identificazione storica e a moltiplicarsi, attese le più generalizzate condizioni di non abbienza attuali, provocate non solo dal lavoro che non c’è più ma dagli espulsi dalla politica, incapace persino di contarli (gli esodati), dalle aziende che chiudono o che si delocalizzano, dai lavori autonomi divenuti impraticabili per difetto di domanda. Di conseguenza, dovrà mettersi in conto un consistente incremento dell’indigente che, novellato nella sua definizione e nella presenza in rapporto alla popolazione, porterà il molto abbiente a sopportare il corrispondente sacrifico, in ragione della quasi totalità del carico economico delle prestazioni rese sino ad oggi gratuitamente ovvero compartecipate. Il tutto in ragione della sostenibilità di un sistema, altrimenti a rischio di
default, tale da minacciarne l’esistenza.
Tutto ciò è necessario in presenza dell’organizzazione che c’è che trascina i piedi, oberata com’è dal peso della inappropriatezza, “garantita” in tantissime regioni, dai debiti e dai
deficit inarrestabili e dalle prestazioni impagate per centinaia di milioni di euro che mandano in rovina i creditori.
Quanto al mercato del farmaco, sta subendo momenti di criticità che nessuno avrebbe avuto la capacità neppure di immaginare dieci anni orsono. E’ da tempo che vado dicendo dello sgretolamento del sistema, perché è da tempo che mi interesso, sia sul piano della ricerca che professionalmente, di salvataggi di soggetti convenzionati e accreditati/contrattualizzati con il SSN.
La realtà supera le peggiori profezie. Tanti grossisti che non ci sono più, andati a fare parte delle imprese fallite. Quelli che ci sono arrancano, tra la preoccupazione di non incassare quanto accreditano, dopo essere stati abituati per tanti anni a fare ciò che credevano con oneri finanziari alle stelle a carico dei debitori cronici. Subiscono quotidianamente proposte di concordato preventivo, formulate spesso con grande fantasia, con il contributo dei tanti improvvisati tutor che si propongono di contribuire a salvare chi è già affogato. L’opera del risanatore è un mestiere difficile, non si può improvvisare.
Il problema sta negli indebitati che accettano chi propone loro il miracolo, nonostante vittima di metastasi finanziarie difficili pure ad immaginare, tali da non consentire la prosecuzione dell’attività neppure per qualche giorno.
La verità sta nel ripristinare le politiche aziendali indispensabili a riportare, nel rispetto dei tempi necessari, le aziende impegnate nella distribuzione del farmaco ad ogni livello, principalmente le farmacie, alle condizioni di normalità. Ove impossibile, per eccesso di indebitamento, intraprendere le procedure concorsuali rese disponibili dalla legge fallimentare, funzionali a salvare dal formale
default gli imprenditori che si impegneranno seriamente allo scopo.
Quindi fallimenti che non si contano, senza che sia ancora scoperchiato il barile, pieno zeppo di diritti non riscossi dai cittadini e aziende nelle macerie che nessuno ha tenuto, negli anni, a tirare fuori. Arriva, dunque, la resa dei conti!
Urgono soluzioni riformatrici, propedeutiche a rendere sostenibile il sistema della salute, altrimenti a rischio di esistenza.
Prof. avv. Ettore Jorio
Università della Calabria
Senior partner “Studio Associato Jorio”, Cosenza