Studi e Analisi
In una Italia che galleggia, un Ssn forte può diventare un salvagente
di G. Banchieri, A. VannucciPremessa
Il 58° Rapporto sulla situazione sociale del Paese nel 2024 del CENSIS ha avuto un’ampia eco. Le osservazioni che riguardano la sanità in particolare, ed il sistema di welfare più in generale, convergono su quanto già pubblicato nei rapporti di OASI/SDA “Bocconi”, di SVIMEZ, di CREA Sanità, di Osservatorio sulla Salute degli Italiani della Università Cattolica, dell’Osservatorio sul Benessere degli Italiani della Fondazione IRES/ Bruno Visentini e con i dati di ISTAT sui fondamentali del nostro Paese e di Equitalia, solo per citarne alcuni.
I temi che affrontiamo oggi li abbiamo già in parte evidenziati in precedenti articoli su “Quotidiano sanità”: 1, 2, 3, 4
Come guardano gli italiani al futuro
Indipendentemente da quanto sopra, la metà degli italiani (49,6%) ritiene che il nostro futuro sarà condizionato dai cambiamenti climatici e dai possibili eventi atmosferici catastrofici, il 46,0% dagli sviluppi delle guerre in Ucraina e in Medio Oriente, il 45,7% dai rischi di crisi economiche e finanziarie globali, mentre il 35,7% ritiene le migrazioni il determinate prevalente, il 31,0% la competizione geopolitica ed economica tra Stati Uniti e Cina e solo il 26,1% i cambiamenti indotti dalle innovazioni tecnologiche .
La cifra del nostro Paese sembra essere "la continuità nella medietà”, dentro la quale restiamo intrappolati: non cresciamo in termini di produzione e PIL e non andiamo in crisi gravi nelle fasi critiche e recessive.
Nel medio periodo tutti gli indicatori sul nostro Paese si dispongono su una linea di galleggiamento all’interno di un range di oscillazione molto ampio, delimitato dai valori massimi e minimi toccati dai Paesi UE. A proposito di PIL nel ventennio 1963-1983 il suo valore, espresso in euro attuali, era raddoppiato (+117,1%); nei successivi vent’anni, tra il 1983 e il 2003, si era ridimensionato (+48,4%); ma negli ultimi due decenni, tra il 2003 e il 2023, l’aumento è stato solo del +5,8%, (+0,29% annuo).
Anche il reddito disponibile lordo pro-capite delle famiglie italiane in vent’anni (nel periodo 2003-2023) si è ridotto in termini reali del 7,0% e la ricchezza netta pro-capite delle famiglie è diminuita nell’ultimo decennio del 5,5%. I ceti medi e ceti lavorativi sono stati quelli più colpiti. Anche in Italia la conseguenza principale della globalizzazione è stata una concentrazione della ricchezza molto accentuata che ha colpito i ceti medi e i ceti lavorativi che si sono “sfarinati” verso il basso della scala sociale e dei redditi.
Le traiettorie del cambiamento della nostra identità
Il Rapporto CENSIS evidenzia sinteticamente come stia cambiando l’identità del nostro Paese.
Assistiamo ad un diffuso ritrarsi dalla vita pubblica: il tasso di astensione alle ultime elezioni europee del 2024 ha raggiunto il 51,7%. L’indifferenza verso gli strumenti della mobilitazione collettiva è ormai diffusa. Il 55,7% degli italiani oggi considera inutili le manifestazioni di piazza e i cortei di protesta. Parimenti cresce una sfiducia crescente nei sistemi democratici, tant’è che il 68,5% ritiene che le democrazie liberali occidentali non funzionino più. Anche l’Unione Europea senza radicali cambiamenti per il 71,4% degli italiani è destinata a entrare in crisi.
Il 70,8% degli italiani esprime oggi un più o meno viscerale antioccidentalismo ed è pronto a imputare le colpe dei mali del mondo ai Paesi dell’occidente, accusati di essere stati arroganti per via del presunto universalismo dei propri valori, per cui si è voluto imporre il nostro modello economico e politico agli altri.
Sembra un ritorno agli anni trenta, quelli dell’incubazione della grande crisi che portò alla seconda guerra mondiale.
Dal momento che però il desiderio di riconoscimento deve comunque essere appagato si sposta la partita in un altro campo da gioco: quello della rivalità delle identità. È in corso una competizione a oltranza per accrescere il valore sociale delle identità individuali etnico-culturali, religiose, di genere o relative all’orientamento sessuale.
Se tutto ciò provoca scoramento, una sorpresa positiva, per chi come noi crede nei valori dell’accoglienza e dell’integrazione, viene dal constatare che l’Italia si colloca al primo posto tra tutti i Paesi dell’Unione europea per numero di cittadinanze concesse (213.567 nel 2023). Il nostro Paese è primo anche per il totale cumulato nell’ultimo decennio (+112,2% di acquisizioni di cittadinanza italiana tra il 2013 e il 2022).
Siamo diventati ignoranti “funzionali” …
Nel nostro Paese gli analfabeti sono una esigua minoranza (solo 260.000 e i laureati sono arrivati ad 8,4 milioni, pari al 18,4% della popolazione sopra i 25 anni d’età (erano il 13,3% nel 2011).
Tuttavia la mancanza di solide conoscenze di base rende i cittadini più disorientati e vulnerabili, forse a causa l’uso spropositato del web, dei social e di una informazione manipolata.
Non raggiungono gli stessi traguardi di apprendimento in lingua madre e in matematica rispetto agli altri Paesi UE. In italiano, il 24,5% degli alunni al termine del ciclo di scuola primaria, il 39,9% al terzo anno della scuola media, il 43,5% all’ultimo anno della scuola superiore stanno sotto la media europea (negli istituti professionali quest’ultimo dato sale vertiginosamente all’80,0%). In matematica, il 31,8% alle primarie, il 44,0% alle medie inferiori e il 47,5% alle superiori (anche in questo caso il picco più negativo si registra negli istituti professionali: l’81,0%). Nel limbo dell’ignoranza possono attecchire convinzioni irrazionali, pregiudizi antiscientifici, stereotipi culturali.
Cala il Pil e cresce in modo incerto il lavoro
La media dei primi sei mesi dell’anno si è attestata a 23.878.000 occupati, con un incremento di un milione e mezzo di posti di lavoro in più rispetto all’anno nero della pandemia e una variazione positiva rispetto al 2007 del 4,6%. La distanza tra il dato italiano e quello della media europea resta ancora significativa (nel 2023 era 8,3 punti percentuali in meno per il tasso di attività, 8,9 punti per il tasso di occupazione).
Se oggi il nostro tasso di attività fosse uguale a quello europeo, si potrebbe disporre di più di 3 milioni di unità di forza lavoro aggiuntive, e se si raggiungesse il livello europeo del tasso di occupazione, sarebbe superata la soglia dei 26 milioni di occupati: 3,3 milioni in più di quelli del 2023.
Attualmente osserviamo una riduzione della produzione in tutti i settori del manifatturiero. Diverso invece l’andamento
dell’agroalimentare (+2,7% tra il 2019 e il 2023 e +1,8% nei primi otto mesi 2024). Un Exploit invece nel turismo: nel 2023 le presenze in Italia hanno raggiunto i 447 milioni, con un incremento del 18,7% rispetto al 2013.
Se da più parti è stato ripetutamente segnalato che la causa della bassa crescita italiana degli ultimi vent’anni vada ricercata nei modesti risultati ottenuti sul piano della produttività. Se questa affermazione risulta senz’altro vera per le attività terziarie, al contrario, l’industria mostra un progresso dell’indicatore pari a 10 punti percentuali.
Come cambia il mondo del lavoro e la diffusione dell’innovazione
La produzione industriale è ferma da 21 mesi, ovvero, produciamo al livello in cui eravamo quasi due anni fa.
Nell’industria l’indice di occupazione, dopo i picchi toccati nel quarto trimestre del 2023, quando il tasso dei posti vacanti è sceso al 2,4%, il dato si è riportato intorno al 2,0% nel primo semestre di quest’anno.
Anche nel terziario la pressione della domanda di lavoro è stata particolarmente alta nella seconda parte del 2022 e nella prima parte del 2023, con un tasso di posti vacanti del 2,3%, mentre ora si attesta intorno al 2,0%. Il PIL del settore è quello che contribuisce maggiormente al risultato complessivo del Paese, ovvero, +0,5% come da stime della Banca di Italia.
Il dato sugli occupati nella fascia d’età 15-29 anni raggiunge la soglia dei 3 milioni (+206.000 dal 2019), di cui circa 1,8 milioni maschi e 1,2 milioni femmine. Il primo semestre del 2024 mostra un ulteriore aumento dello 0,4% dei giovani occupati. Di riflesso, il tasso di disoccupazione giovanile si è ridotto al 16,7% nel 2023 (5,6 punti in meno rispetto al 2019). Secondo i dati più recenti del 2024 il tasso di disoccupazione giovanile è sceso al 15,4%.
Inoltre si osserva una contrazione anche del numero dei NEET under 30: 1.405.000 nel 2023, il 28,3% in meno rispetto al 2019. Secondo le stime del CENSIS, il costo derivante dal loro mancato inserimento nel lavoro si quantificava nel 2023 in 15,7 miliardi di euro.
Sempre il CENSIS, in una ricerca pubblicata nel settembre del 2024 riporta che attualmente quasi un quarto dei lavoratori italiani utilizza nelle sue diverse forme l’Intelligenza artificiale nelle proprie mansioni lavorative: il 27,7% per la stesura di report, il 24,6% per l’invio di messaggi, il 23,3% per la scrittura di e-mail di lavoro, il 18,5% per creare curriculum e lettere di presentazione. L’Intelligenza artificiale viene usata dalle generazioni più giovani: il 35,8% nella fascia 18-34 anni per la stesura di report, il 27,8% per scrivere e-mail.
Cosa ci manca a livello occupazionale in generale e in sanità
I dati annuali sui fabbisogni di personale delle imprese private dei settori industriali e dei servizi evidenziano che tra il 2017 e il 2023 la quota di figure ritenute di difficile reperimento è passata dal 21,5% al 45,1% del totale delle assunzioni previste, e soprattutto è aumentato il peso delle figure difficili da reperire per esiguità dei candidati (dal 9,7% del totale delle assunzioni previste del 2017 al 28,4% del 2023).
La scarsità numerica di candidati è il fattore che, a partire dal 2021, predomina come causa di difficoltà di reperimento della forza lavoro, superando la più tradizionale inadeguatezza dei canditati.
Nel 2023 quest’ultimo aspetto è stato riscontrato dalle imprese solo nel 16,7% dei casi. Il ridotto numero di candidati riguarda ben il 70,7% della domanda di lavoro per infermieri e ostetrici, il 66,8% per i farmacisti e il 64,0% delle posizioni aperte per il personale medico. Inoltre, mancano all’appello candidati per il 34,6% delle professioni sanitarie riabilitative e per il 43,6% delle professioni qualificate nei servizi sanitari e sociali.
Servizi pubblici e differenze tra città e campagne: tante Italie diverse
Si acuisce il problema della rarefazione dei servizi (pubblici e privati) e delle infrastrutture di coesione sociale nelle aree interne. Se mediamente in Italia le famiglie che sperimentano difficoltà per raggiungere una farmacia sono il 13,8% del totale (3,6 milioni) e per accedere a un Pronto soccorso sono il 50,8% (13,3 milioni), nel caso dei residenti in comuni fino a 2.000 abitanti le difficoltà riguardano rispettivamente il 19,8% e il 68,6% delle famiglie.
Sul versante della sicurezza, sono poco più di 8 milioni le famiglie italiane che considerano difficile raggiungere un commissariato di polizia o una stazione dei carabinieri.
La stessa percentuale (circa il 31%) lamenta difficoltà di accesso ai servizi comunali.
Più di un quinto trova difficile raggiungere un negozio di generi alimentari o un mercato. Per il 54,9% delle famiglie che vivono nei piccoli comuni anche l’accesso a un supermercato può rivelarsi tutt’altro che semplice.
Le prospettive del welfare
Sempre nel Rapporto CENSIS si evidenzia una riduzione dell’efficacia del welfare pubblico, che incide negativamente sul benessere e sulla qualità della vita delle famiglie, e in definitiva sulla coesione sociale.
Negli ultimi dieci anni, tra il 2013 e il 2023, c’è stato un incremento del 23,0% in termini reali della spesa sanitaria privata pro-capite, che nell’ultimo anno ha superato complessivamente i 44 miliardi di euro e tuttavia sembra che il 62,1% della popolazione almeno una volta abbia dovuto rinviare accertamenti diagnostici o visite specialistiche perché la lista di attesa nel SSN era troppo lunga e il costo da sostenere nelle strutture private troppo alto.
Al 53,8% è capitato, in presenza di problemi di salute, di dover fare ricorso ai propri risparmi per pagare le prestazioni sanitarie necessarie. E il 78,5% dichiara che, in caso di problemi di salute, teme di non poter contare sulla sanità pubblica.
Anche le prospettive del comparto previdenziale pongono una seria ipoteca sul futuro degli italiani: il 75,7% pensa che non avrà una pensione adeguata quando lascerà il lavoro per raggiunti limiti di età (in particolare, è l’89,8% dei giovani ad avere questa certezza). E la non autosufficienza, che attualmente coinvolge circa 3 milioni di persone, destinate ad aumentare in modo consistente nel futuro, vista la relazione diretta con l’invecchiamento della popolazione, è percepita già oggi come una condizione che grava quasi interamente sulle proprie spalle e il 75,0% degli italiani teme che i propri risparmi non basteranno in caso di non autosufficienza.
Crescita lenta dell’economia e retribuzioni ridotte non permetteranno di generare flussi finanziari sufficienti per coprire i costi di prestazioni pienamente adeguate. Così, sono sempre di più gli italiani convinti che nel futuro sarà decisivo il ricorso a strumenti di autotutela.
Il welfare sembra destinato a perdere quel carattere di universalismo delle origini, inclusivo e coesivo, perché ormai taglia fuori di fatto porzioni crescenti del ceto medio e anche dei ceti lavorativi, in particolare gli under ’40, obbligati a sostenere il costo fiscale del welfare, ma con la prospettiva di dover affrontare le avversità della vita con risorse proprie.
Solitudine e fragilità dei giovani
Viviamo in una società nella quale ormai il 58,1% dei giovani tra i 18 e i 34 anni si sente fragile, il 56,5% dichiara di sentirsi solo e il 69,1% ha bisogno di sentirsi rassicurato. Sono sentimenti generati dall’incertezza, dalla paura di non farcela, che possono sfociare in frustrazione, stati d’ansia, attacchi di panico, depressione o disturbi alimentari.
Se il 51,8% dei giovani dichiara di soffrire di stati d’ansia o depressione - contro il 40,8% delle persone di età compresa tra i 35 e i 64 anni e il 19,0% degli over 65, se Il 32,7% dei 18-34enni afferma di soffrire di attacchi di panico - a fronte del 23,8% degli adulti e del 4,2% degli anziani – e il 18,3% soffre di disturbi del comportamento, delle domande sul nostro presente e sul nostro futuro dovremmo porcele e non far finta che il problema non ci sia.
È senza dubbio vero che ci sono anche tanti giovani che studiano, lavorano, sono soddisfatti della propria vita e mettono in gioco strategie per assicurarsi un futuro migliore. Ma quanti di loro stanno lasciando il Paese! Dal 2013 al 2022 sono espatriati dall’Italia circa 352.000 giovani tra i 25 e i 34 anni. Di questi, più di 132.000 (37,7%) erano in possesso della laurea. Se nel 2013 erano il 30,5% degli emigrati dall’Italia nel 2022 sono diventati il 50,6%. È possibile che le scelte economiche dei vari governi che si sono succeduti negli ultimi due decenni che hanno cercato risultati in termini di produttività del paese attraverso politiche di bassi salari siano state determinanti per questo fenomeno. A parte il patrimonio perduto per formarli (stimato circa 4.3 mld) è inestimabile la perdita del “ritorno dell’investimento” che abbiamo fatto sui nostri giovani.
I patrimoni
I dati demografici evidenziano in modo netto la contrazione delle generazioni avvenuta tra il 1984 e il 2024. Nel 1984 le coorti di giovani di età compresa tra i 20 e i 29 anni e tra i 30 e i 39 anni erano, rispettivamente, il 14,6% e il 13,4% della popolazione.
Nel 2004 pesavano rispettivamente il 12,6% e il 16,2% − diminuendo, nel primo caso, del 12,3% e aumentando, nel secondo caso, del 22,7%. Il ventennio successivo si è caratterizzato per un andamento regressivo più spinto, a causa della diminuzione del tasso di fecondità. Così, rispetto a vent’anni fa, i 20-29enni e i 30-39enni sono diminuiti, rispettivamente -17.5% e – 29.4%, e rappresentano oggi quote molto inferiori della popolazione complessiva: soltanto il 10,2% e all’11,2% del totale.
Una tendenza involutiva destinata a proseguire nei prossimi anni: si prevede che nel 2044 i 20-29enni si saranno contratti ulteriormente del 15,6% rispetto a vent’anni prima e i 30-39enni dello 0,2% (tab. 27). In futuro il valore dei patrimoni familiari è destinato quindi a concentrarsi in gruppi più ristretti della popolazione per effetto della deriva demografica di lungo periodo.
La solitudine
Il 58,8% degli italiani trascorre il tempo libero con i propri amici d’almeno una volta alla settimana. Tra i giovani (15-19 anni) sono naturalmente di più: fino al 90%.
Le occasioni d’incontro in quasi la metà dei casi sono fuori di casa. I luoghi più frequentati sono ristoranti, bar, pub, ma anche i luoghi dove si fa sport, i parchi e anche i centri commerciali. E gli altri? Chi sembra non avere o non vedere amici e chi, il 13,3% di italiani (fino al 17,8% tra i giovani dai 18 ai 34 anni), ammette di prediligere gli incontri virtuali nei social network.
8,9 milioni d’italiani vivono da soli: il 34,8% sono vedovi, gli altri sono celibi e nubili o separati e divorziati.
Che ruolo può avere il servizio sanitario nazionale?
Il nostro servizio sanitario potrebbe mitigare tante delle criticità che abbiamo passato in rassegna così come potrebbe aggravarle. Quale delle due alternative accadrà dipenderà da noi, tutti, con i nostri diversi ruoli: cittadini, professionisti della sanità ed attori del sociale, manager pubblici e politici e anche il cosiddetto mondo produttivo, quello delle aziende, prime fra tutte quelle del farmaco e dei dispositivi medici e quelle delle tecnologie digitali.
Sappiamo che abbiamo una sfida da affrontare, quella della sostenibilità, che non significa resistere, ma continuare a generare sempre più valore per tutti.
Le risorse per la sanità sono limitate da un finanziamento sottodimensionato. Recentemente anche la Corte Costituzionale si è espressa, sottolineando come lo Stato non può mai “rispondere” tagliando risorse destinate alla spesa costituzionalmente necessaria, tra cui quella sanitaria, che già ha sofferto per precedenti “arditi tagli lineari”.
Se in tanti siamo d’accordo che andrebbe posta fine agli “arditi tagli” - come tali recentemente indicati in una sentenza della Corte Costituzionale che ha affermato che Il diritto alla salute non può essere sacrificato «fintanto che esistono risorse che il decisore politico ha la disponibilità di utilizzare per altri impieghi che non rivestono la medesima priorità» - in molti ci rendiamo conto anche che sarà molto improbabile che l’allocazione delle non cospicue risorse pubbliche possa far crescere concretamente il Fondo Sanitario Nazionale.
Allora proponiamoci d’inaugurare anche un discorso differente, proviamo a partire da non solo cosa sia necessario ma anche cosa sia possibile fare. Se dovessimo indicare delle priorità, al primo posto andrebbe messa, senza indecisione alcuna, la concreta e completa implementazione di quanto nel DM 77 disposto e, in particolare, la messa in opera delle Case di Comunità.
Non stiamo qui a ripetere perché dovremmo farlo né a ricordare che la disponibilità finanziaria messa a disposizione dalla Missione 6 del PNRR è insieme un’evidenza della necessità di questo intervento e un’opportunità per riuscire ad attuarlo. Si tratta però di saperlo fare, cioè non usare i soldi solo per tirare su muri e acquistare strumenti ma per realizzare attività e gestioni che siano coerenti con la denominazione stessa: “di comunità”.
Quando il legislatore ha scelto d’impiegarla ha indicato una prospettiva che potrebbe sembrare antica ma che è invece innovativa, appropriata e sfidante.
Nel PNRR le case di comunità sono definite come “punto di riferimento continuativo per la popolazione che ha il fine di garantire la promozione, la prevenzione della salute e la presa in carico della comunità di riferimento».
Detto in altri termini, si tratta di strutture socio-sanitarie polivalenti che forniscono assistenza di tipo primario e attuano attività di prevenzione nonché di promozione della salute.
In un recente documento del Forum Diseguaglianze Diversità dal titolo “Case della Comunità. Alla ricerca di una nuova nozione di pubblico” viene ricordato come occorra essere consapevoli che le case di comunità, oltre ad operare nel settore sociosanitario, possono agire anche in altri ambiti ed offrire l’opportunità per ripensare la funzione pubblica, rivitalizzando il lavoro sociale, l’attenzione alla multidimensionalità dei bisogni e la partecipazione dei diversi soggetti coinvolti.
Una sfida di alto valore che si basa su 4 punti chiave:
E infine…alcune considerazioni generali
Si deve tornare a parlare di crescita. Abbiamo bisogno di una idea di “sistema Paese” in divenire. In primis abbiamo bisogno di un progetto di sviluppo industriale del Paese che tenga conto dei cambiamenti geopolitici in atto, dei cambiamenti nelle filiere produttive e di servizi connessi.
La via di una società ultrademocratica – “poliarchica”, scriveva lo stesso CENSIS negli anni ’90 del secolo scorso –, in cui si governa, o almeno si concertano le scelte di governo, con i grandi soggetti collettivi, è stata travolta dalle dinamiche della globalizzazione, dalla concentrazione del potere verso gli esecutivi e dall’insorgere della cosiddetta “società liquida” senza più “corpi intermedi” significativi. Comunque il corpo sociale anche in una società fragile e disarticolata, segue sempre una sua logica e tende a riportare a regime l’ingovernabile motore della crescita e dello sviluppo.
Ora e dopo un così lungo tempo trascorso nell’attesa, bisogna assumersi il rischio di andare oltre. Dopo anni – ormai più di un quindicennio – in cui la nostra società è rimasta alla finestra, si affacciano all’orizzonte un nuovo scenario mondiale e un nuovo scenario tecnologico. La nostra società è molto più meticcia di quanto si dica. Un po’ occidentale e un po’ mediterranea, levantina e mediorientale, contadina e cibernetica, poliglotta e dialettale, mondana e plebea. Non siamo più una società in corsa verso uno sviluppo, ma non siamo neanche un popolo di poveri diavoli destinati a rimanere miserabili.
Fare politica è ancora un esercizio “alto”, è l’arte del consenso e dell’interpretazione dei sentimenti e dei bisogni sociali, è un compito complesso di responsabilità e di immaginazione. In particolare fare politica sanitaria, un esercizio che sembra al momento frammentario e confuso, significa leggere il Paese con lo sguardo rivolto al futuro.
Una “società aperta” porta con sé dei rischi, per le istituzioni collettive e per la vita privata e, con i rischi, comporta anche preoccupazioni relative alla perdita di sicurezza, alle limitazioni alla redistribuzione delle rendite, all’ibridazione culturale. È un rischio che la nostra società non sembra disponibile ad assumersi, ma che, allo stesso tempo, non può permettersi di non correre, se vuole crescere e non più galleggiare.
Giorgio Banchieri,
Segretario Nazionale ASIQUAS, Docente Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche della Università “Sapienza” di Roma, Docente LUISS Business School Roma.
Andrea Vannucci,
Membro CTS ASIQUAS, Professore a contratto DISM Università di Siena, socio Accademia Nazionale di Medicina, Genova.