Studi e Analisi
Un’analisi filosofica sulla nozione di “trattamento di sostegno vitale”
di Maurizio MoriPremessa.
La Sentenza n. 242/19 della Corte costituzionale ha stabilito che una persona può chiedere assistenza medica al suicidio ove essa sia:
«(a) affetta da una patologia irreversibile e
(b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia
(c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti
(d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli».
La Sentenza ha portato all’assoluzione di Marco Cappato per aver violato l’art. 580 c.p. circa il divieto di istigazione e aiuto al suicidio. Cappato aveva accompagnato in Svizzera Fabiano Antoniani, chiamato dj Fabo, che in quel paese è morto per suicidio assistito. Dj Fabo era sostenuto da una macchina (un respiratore per diverse ore al giorno) e quindi sembrava soddisfare tutte le condizioni sopra riportate. Presto, però, sono sorti dubbi e incertezze circa la terza condizione (che la persona sia “tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale”) e da varie parti ci si è chiesti: “ma che cos’è esattamente un trattamento di sostegno vitale?”, “che cosa differenzia un trattamento di sostegno vitale da un trattamento ordinario?”.
Analisi filosofica
Nella letteratura medica non c’è una definizione chiara e condivisa di “trattamento di sostegno vitale” (TSV) ma, sia in ambito giuridico che in ambito clinico, messi di fronte alla domanda precisa: “questo è un trattamento ordinario o un TSV?” si è cercato di dare una risposta. Il senso comune, infatti, ci porta a credere che ogni domanda precisa abbia una corrispondente risposta altrettanto puntuale. Questa convinzione è tanto scontata che neanche si considera l’ipotesi che la domanda sia mal posta, impropria o malformata, cioè che non abbia affatto risposta o che ne abbia una diversa da quella inizialmente attesa. Eppure, esistono domande malformate. Esempio di scuola al riguardo è: “perché ieri hai picchiato tua moglie?” fatta a uno scapolo. Domanda che chiaramente non ha risposta, perché lo scapolo non ha moglie.
Nel primo capitolo di The Problems of Philosophy (1919) Bertrand Russell ha osservato che la domanda: “il piano di questo tavolo è liscio o frastagliato?” a prima vista sembra avere una risposta certa, semplice e immediata: il piano è liscio. Basta però un po’ di riflessione per capire che quella risposta vale solo se si guarda il piano a occhio nudo. Ove lo guardassimo al microscopio vedremmo solchi profondi e ampie valli, e la risposta sarebbe: il piano è frastagliato. Di qui ulteriori domande: Qual è il “vero” piano del tavolo? È quello che appare a occhio nudo o quello al microscopio? C’è davvero un unico (“vero”) piano o ce ne sono due: liscio se guardato a occhio nudo, frastagliato se al microscopio? Perché privilegiare un livello di analisi (occhio nudo) invece che l’altro (microscopio) o viceversa?
Non è qui il caso di continuare l’analisi di Russell, che esaminando la distinzione apparenza/realtà mostra come il senso comune possa essere fuorviante e come la filosofia abbia invece “la capacità di porre domande che accrescono l’interesse per il mondo” (p. 16). Ho ricordato l’esempio perché esso mostra come una domanda, che all’inizio sembrava avere un’unica risposta, risulta invece avere più risposte e diverse da quella inizialmente attesa. Il fatto poi che la domanda: “il piano di questo tavolo è liscio o frastagliato?” abbia la stessa forma grammaticale di: “questo trattamento sanitario è ordinario o di sostegno vitale?” avalla l’ipotesi che le considerazioni fatte circa la prima domanda valgano mutatis mutandis anche per la seconda.
Come nel caso del tavolo ci si aspettava che la risposta fosse una, e invece ce ne sono diverse, che non dipendono dalla natura del tavolo ma dal livello di analisi usato (occhio nudo o microscopio) per guardare il tavolo, così anche nel caso del TSV si parte assumendo che la risposta sia unica e invece ce ne sono varie, le quali non dipendono dalla natura intrinseca del trattamento sanitario in questione, ma dai valori etici usati per valutare il trattamento stesso. Mentre la domanda dà per scontato che ci sia uno specifico “oggetto TSV”, bisogna riconoscere che non c’è nulla del genere e che è anche fuorviante cercare tale “oggetto”, perché qualsiasi trattamento sanitario può diventare un TSV o no a seconda della valutazione etica che riceve. All’inizio sembrava che la risposta alla domanda circa il TSV dipendesse dalla definizione (dal “che cosa è” un TSV) e che il problema posto fosse di “ontologia”. Ora vediamo invece che la risposta dipende dai valori etici di riferimento, cioè dalla valutazione (“come e quanto apprezzo” il trattamento) e che il problema è di “etica”.
L’analisi filosofica fatta ha chiarito che la questione circa il TSV non è ontologico-definitoria (come sembrava all’inizio), ma etico-valutativa. L’analisi non ha prodotto alcuna risposta “vera” o “risolutiva” del problema, ma ha consentito di individuare la fonte del contrasto, che sta negli opposti valori in gioco. Sulla scorta della nuova consapevolezza acquisita circa la natura etica dei problemi concernenti il TSV, passiamo ora a cercare di capire quali siano i valori di riferimento previsti dal quadro normativo per valutare se un trattamento sanitario sia o no un TSV.
I valori in gioco (bene-vita o bene-scelta) nel quadro normativo della 242/19
La Sentenza 242/19 ha introdotto in Italia la liceità del suicidio medicalmente assistito sulla scorta del bilanciamento tra due fondamentali valori costituzionalmente tutelati: il bene-vita e il bene-scelta, quest’ultimo strettamente connesso col “bene-no-al-dolore”, dal momento che le persone solitamente scelgono di evitare sofferenze inutili soprattutto alla fine della vita. Per capire se un dato trattamento sanitario sia o no un TSV, bisogna individuare quale sia, nel bilanciamento, il valore prioritario in base al quale operare la valutazione, se il bene-vita o il bene-scelta. Il compito non è facile perché il testo della Sentenza 242/19 è piuttosto ampio (più di 11.000 parole) e ammette interpretazioni diverse. A rischio di qualche semplificazione, presento due diverse linee interpretative ciascuna delle quali delinea il quadro normativo complessivo per capire meglio come mai le valutazioni vadano fatte in base agli opposti valori (bene-vita o bene-scelta).
Nella prima interpretazione si parte sottolineando con forza che la 242/19 ha solamente depenalizzato l’assistenza al suicidio e l’ha fatto solo in quella “circoscritta area di non conformità costituzionale” individuata dalla presenza delle 4 condizioni sopra ricordate. Queste devono essere "necessariamente concomitanti" e servono per definire una esimente che non intacca affatto la ratio dell’art. 580 c.p., che resta la “tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili” cioè il bene-vita. Assodato questo, si continua osservando che l’esimente vale solo nella “circoscritta area”, perché in essa a volte si presentano “situazioni inimmaginabili” al tempo dell’approvazione dell’art. 580 c.p., cioè situazioni estreme di “vita artificiale” caratterizzata da macchine o altre invasività.
Solo in queste situazioni del tutto speciali, “inimmaginabili” appunto, l’aiuto al suicidio è stato “depenalizzato”: non “permesso” né tantomeno ammesso come “diritto”. Al di fuori della “circoscritta area” la tutela della vita (il bene-vita) resta il valore fondante e guida della pratica clinica. È per questo che, per sapere se un dato trattamento sanitario sia o no un TSV, il riferimento è al bene-vita, che è un valore “oggettivo” che, per individuare un TSV, non si accontenta delle scelte soggettive circa la qualità della vita rimanente, ma richiede dati solidi e ben visibili (come macchine, interventi invasivi, etc.).
Nell’altra interpretazione, invece, per delineare il quadro complessivo si parte osservando che la modifica fatta del 580 c.p., per forza di cose ha cambiato anche la gerarchia dei valori interna all’ordinamento e la stessa ratio circa la “tutela della vita”, per cui il significato dei termini corrispondenti va reinterpretato. Amputato un braccio a una persona, si può ancora continuare a parlare della sua “integrità corporea”, ma lo si fa in un senso diverso da prima: lo stesso vale per le parole della Corte costituzionale circa la “tutela della vita” etc., che vanno risignificate.
D’altro canto, le “situazioni inimmaginabili” di cui parla la Sentenza non riguardano solo la “circoscritta area” creata dalle 4 condizioni ma l’intero ambito medico-sanitario, dal momento che la Rivoluzione biomedica ha favorito sì l’allungamento della vita ma ha creato anche la possibilità di accanimento terapeutico. Prima la medicina poteva fare poco ma quel poco era teso a ridare opportunità di vita buona. Oggi, invece, a volte gli interventi clinici sono diventati un tormento e pongono il paziente in una situazione infernale. Anche per questo la Legge Lenzi n. 219/17 ha fondato il rapporto medico-paziente sul consenso informato, non più sulla tutela della vita. È il bene-scelta che oggi fonda e guida la pratica clinica, e è per questo che l’interessato ha sempre il diritto di rifiutare o di sospendere le cure.
Accogliendo questo quadro normativo stabilito dalla L. 219/17, legge che nella Sentenza 242/19 è citata come riferimento ben 15 volte, la Corte costituzionale ha allargato il diritto di rifiutare le cure osservando che, come la persona ha il diritto di arrivare a morte rifiutando le cure, così, in presenza delle 4 condizioni, la persona ha la facoltà di scegliere di giungere allo stesso esito chiedendo l’assistenza al suicidio. Ove mancasse questa ulteriore possibilità, osserva la Sentenza 242/19, si finirebbe per imporre al paziente «un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, con conseguente lesione del principio della dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive».
Detto altrimenti e in termini più diretti: senza il diritto di chiedere l’aiuto al suicidio (speculare al diritto di rifiutare le cure), il bene-vita avrebbe – nel bilanciamento sempre dovuto – un’ingiustificata priorità sul bene-scelta, che invece deve essere sempre considerato soprattutto nelle valutazioni circa il fine-vita, e quindi anche nella valutazione se un dato trattamento sanitario sia o no un TSV.
Le linee del dibattito giuridico in corso sul TSV.
L’analisi filosofica ha mostrato che la domanda: “che cos’è un TSV?”, si risolve nella domanda: “in base a quale valore valutare un trattamento sanitario per stabilire se è un TSV?”. D’altro canto, dei due quadri normativi sopra delineati, l’interpretazione più affidabile è la seconda: quella per cui nel bilanciamento la precedenza spetta al bene-scelta (non al bene-vita).
Questo risultato è in linea con gli sviluppi del dibattito in corso in ambito giuridico. Infatti, la Corte d’Assise di Massa il 27 luglio 2020 ha assolto di nuovo Marco Cappato che aveva accompagnato a morire in Svizzera Davide Trentini: altro paziente che si trovava in una situazione clinico-esistenziale sovrapponibile a quella di dj Fabo ma che non era attaccato a macchine. L’assoluzione è stata giustificata osservando che la condizione circa il TSV era soddisfatta perché un TSV può essere realizzato «con l'ausilio di macchinari medici», «con terapie farmaceutiche o con l'assistenza di personale medico o paramedico» (Corte di Massa, Sentenza 27.07.2020). Confermata dalla Corte d’Appello di Genova (20.05.2021), la decisione della Corte d’Assise di Massa in pratica privilegia il bene-scelta, allargando la nozione di TSV fino a includere tutti i «trattamenti interrompendo i quali si verificherebbe la morte del malato, anche in maniera non rapida» (Corte di Massa, sentenza 27.07.2020).
Mentre la Corte di Massa ha scelto di dare la precedenza al bene-scelta ampliando la nozione di TSV, la Giudice per le Indagini Preliminari di Firenze, Agnese Di Girolamo, in modo più netto ha chiesto alla Corte Costituzionale di abolire la clausola: “l'aiuto sia prestato a una persona «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale»”, perché essa contrasterebbe “con gli art. 2, 3, 13, 32 e 117 Cost., quest'ultimo in riferimento agli artt. 8 e 14 della Convenzione EDU” (Ordinanza del 24 gennaio 2024), cioè perché tale clausola penalizzerebbe il bene-scelta. Le 18 pagine dell’Ordinanza sono acute, dense, articolate e di non facile lettura, ma il filo conduttore è chiaro. La clausola circa il TSV crea una “irragionevole disparità di trattamento […] tra situazioni concrete sostanzialmente identiche”.
Questa diseguaglianza diventa palese ove si consideri che, in presenza delle altre tre condizioni (capacità di autodeterminarsi, patologia irreversibile e sofferenze intollerabili), la liceità dell’eventuale assistenza prestata al suicidio “finisce per dipendere dal fatto che la persona sia o meno tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale”: condizione ingiustificata in quanto “appare il frutto di circostanze del tutto accidentali, legate alla multiforme variabilità dei casi concreti […] il requisito-criterio in esame [dei TSV] appare incapace di operare una selezione razionale tra situazioni simili”, per cui emergono difficoltà insanabili entro il quadro normativo. In primo luogo, la richiesta di essere tenuti in vita da un TSV configura una grave violazione della libertà della persona che, per poter mostrare di soddisfare il requisito in questione (TSV), si trova esposta a dover accettare di essere attaccata a macchine o subire altri interventi invasivi con le conseguenti maggiori sofferenze che ciò comporta, in contrasto con la L. 219/17 che invece prevede libertà di cura.
Inoltre (seconda difficoltà), il criterio-requisito del TSV non solo non opera una “selezione razionale tra situazioni simili” ma anzi si pone in contrasto con l’uguaglianza sostanziale prevista dalla Costituzione. Infatti, è ormai assodato che il “bene-vita” va sempre bilanciato col “bene-scelta”: è sulla scorta di questo bilanciamento che la 242/19 esclude “il divieto assoluto di aiuto al suicidio”, perché questo “avrebbe imposto alla persona «un'unica modalità per congedarsi dalla vita» (l'interruzione dei trattamenti di sostegno vitale)”, e in questa linea si preoccupa di evitare che la persona sia esposta «a subire un processo più lento, in ipotesi meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire»”. In contrasto con questo quadro normativo (che è assodato), la presenza del TSV impedisce il bilanciamento, dal momento che tale clausola introduce un elemento esterno fisso (il TSV appunto) che, come un macigno, blocca il bilanciamento stesso, creando disuguaglianza. Ecco perché la clausola circa il TSV va tolta.
Conclusione
Sia la Corte d’Assise di Massa che la Gip di Firenze convergono nel rilevare, in modi diversi, che il quadro normativo post-242/19 prevede la priorità del bene-scelta come valore di riferimento per stabilire se un trattamento sia o no un TSV. La Corte d’Assise di Massa lo fa allargando la nozione di TSV, così da ampliare di molto le opzioni disponibili e dare in pratica la precedenza al bene-scelta. La Gip di Firenze lo fa con maggiore decisione chiedendo alla Corte costituzionale di abolire la clausola stessa del TSV.
Questa clausola introduce un elemento statico, fisso e indipendente, la cui presenza rappresenta un’irragionevole “compressione del diritto al rispetto della vita privata e familiare; una compressione che … non appare funzionale (e tantomeno "necessaria" …) alla tutela del diritto alla vita, o che comunque sacrifica in modo sproporzionato l'interesse a morire della persona che abbia preso tale decisione in modo libero e consapevole” (Ordinanza 24 gennaio 2024). Ha ragione la Gip di Firenze a chiedere alla Corte costituzionale di cassare la clausola circa il TSV. L’Ordinanza presenta le tante ragioni normative che dall’interno dell’ordinamento sostengono che la richiesta avanzata è corretta, l’analisi filosofica qui svolta ha chiarito i termini generali della questione per mostrare perché tale richiesta è corretta.
Maurizio Mori
Presidente della Consulta di Bioetica Onlus, componente del Comitato Nazionale per la Bioetica