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QS Edizioni - giovedì 21 novembre 2024

Studi e Analisi

L’errore di fondo nel confronto sull’autonomia differenziata

di Ettore Jorio
immagine 28 febbraio - Il confronto che si sta materializzando oggi sembra infatti, piuttosto che fermarsi sulle ragioni favorevoli e contrarie a che si realizzi un maggiore autonomia legislativa delle Regioni, riguardare la insufficienza delle economie indispensabili per garantire a tutti l’erogazione dei LEP, prioritariamente alle comunità meridionali.

Quello attuale rappresenta davvero un brutto periodo per l’attuazione del Titolo V della Costituzione, dopo ventidue anni sprecati a cura di undici Governi e cinque legislature. Il tutto con una sanità della quale è persino difficile raccogliere i cocci e una assistenza sociale neppure a parlarne.

L’iter parlamentare della legge quadro attuativa del regionalismo asimmetrico (approvato al Senato lo scorso 23 gennaio e trasmesso per l’esame alla Camera) sta generando un dibattito nel Paese per molti versi confuso e non propriamente corretto nei termini che lo stanno caratterizzando.

In buona sostanza, il confronto, dentro e fuori il Parlamento, si sta contraddistinguendo per un errore di fondo.

Si è consolidata nel Paese una sorta di lotta politica contro l’autonomia legislativa differenziata, di cui all’art. 116, comma 3, non propriamente condivisibile sotto il profilo tecnico. Ciò in quanto essa stessa disputa è nella sostanza svolta contro i LEP e il cosiddetto federalismo fiscale, senza avvedersi che in tal modo viene ad essere favorito il perdurare ad libitum dell’aberrante criterio della spesa storica, quello che ha “assicurato” lo stato di precarietà dei servizi e delle prestazioni vissuto dalla Nazione. Basta vedere al riguardo, le condizioni erogative del diritto alla salute, dell’assistenza sociale, dell’istruzione e dei trasporti pubblici locali per rendersi conto di quanto lo stesso abbia fatto del male alla nazione intera, con punte di quasi sadismo verso quella che risiede nel Mezzogiorno.

Gli elementi in contestazione sono, pertanto, da considerarsi esclusivamente mirati a prolungare i ritardi di ciò che andava fatto da circa un quarto di secolo per assicurare a tutti, nessuno escluso, i LEP riguardanti i diritti civili e sociali e per mandare finalmente a casa il criterio della spesa storica, che ha – come detto - danneggiato tantissimo il Paese, nella sua parte tradizionalmente più debole.

Il leitmotiv delle contestazioni al testo del Ddl Calderoli, sensibilmente emendato al Senato, rappresenta essenzialmente “un calcio di rigore sbagliato”, atteso che fonda le sue radici sul costo dell’erogazione uniforme dei LEP, meglio sulla loro difficile sostenibilità, come se questo fosse un problema nato al seguito del regionalismo rafforzato. Dimenticando con ciò che i LEP sono stati introdotti nel 2001, coevamente al federalismo fiscale e al sistema della perequazione, sia ordinaria che infrastrutturale, entrambe ancorate all’esigibilità dei LEP. Quindi, un costo comunque accollato da 22 anni al bilancio dello Stato, con o senza autonomia legislativa differenziata a regime, ma senza però la garanzia della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, fatta eccezione per i LEA, ancorati tuttavia ad una metodologia francamente inidonea ad assicurare l’efficacia e l’uniformità dell’assistenza sociosanitaria.

Tutto questo fa da pendant, per i sostenitori del regionalismo rafforzato, al condivisibile o meno instaurarsi di una precisa e ragionevole istanza di vedere al governo della res pubblica non statale decisori regionali capaci a tal punto da rivendicare, ove utile, per un decennio una maggiore competenza legislativa nelle materie differenziabili, che sia risolutiva per un maggiore sfruttamento delle risorse naturali della loro regione e quindi più funzionale al loro sviluppo.

Tra storia e ragioni dell’autonomia legislativa differenziata

Il regionalismo rafforzato ha vissuto tre fasi di completa incuranza nel nostro Paese:

  • la prima è stata il passare inosservato agli oppositori di oggi all’atto dell’approvazione delle revisione del Titolo V, Parte II, del 2001 (anche essa in tre step: approvazione in Parlamento senza maggioranza richiesta dall’art. 138 della Costituzione, referendum confermativo del 7 ottobre 2001, legge costituzionale 3/2001). Nessuno all’epoca proferì infatti alcun dissenso ovvero osservazioni critiche, compresi i presidenti delle Regioni a statuto ordinario, i sindaci, le rappresentanze dei lavoratori e delle imprese, la Svimez e simili;
  • la seconda ha riguardato l’approvazione della legge delega attuativa n. 42/2009, passata in Parlamento con le opposizioni astenute (Pd 188 e gruppo misto 7) e il voto contrario dell’Udc, e la condivisione totale dei dieci decreti delegati adottati negli anni 2010/2011;
  • la terza è oggi, atteso che sono in pochissimi - dopo i consensi politici manifestati nella formazione degli anzidetti provvedimenti e nell’attività propositiva concretizzatasi nel DDL Boccia il 2019 e in quello Gelmini nel 2023 del tutto simili a testo redatto da Calderoli – ad affrontare l’esame delle procedure previste ma soprattutto a mettere in luce le diverse scansioni possibili riguardanti l’accentramento sulle Regioni a statuto ordinario di venti materie concorrenti, riferito ai principi fondamentali oggi di competenza statale, e alla cinque regolate esclusivamente dallo Stato.

Il confronto e le critiche - dure e molto spesso contraddittorie rispetto agli atteggiamenti politici e tecnici assunti all’epoca - si rivolgono come detto altrove, spesso fuori tiro rispetto al testo che è in approvazione definitiva alla Camera.

Non solo, con modalità e ragioni distratte dal tema che dovrebbe maggiormente riguardare le soluzioni alla povertà del Mezzogiorno e all’esigibilità dei diritti fondamentali. Anche gli ultimi eventi hanno dimostrato che tutti, nessuno escluso, utilizzino l’occasione dell’attuazione dell’art. 116, comma 3, della Costituzione, più per distinguersi – au contraire di come fecero nel passato che li vide addirittura proponenti (2001) e uniti al riguardo (2009/2011) – nella imminente campagna elettorale per le europee.

Nondimeno, si evidenziano sottovalutazioni anche da parte del Governo nel lavorare in perfetta sincronia con le esigenze ineludibili che il tema del federalismo fiscale a regime, cui il più recente testo Calderoli subordina l’accesso alla autonomia legislativa differenziata, impone: le perequazioni.

Una disattenzione grave, questa, che legittima un’analisi più approfondita su cosa occorrerebbe poggiare più attenzione e di cosa invece si sta occupando il dibattito politico e il confronto nelle piazze, che ha assunto il tono e i modi quasi di una rivolta.

Il problema non è il regionalismo asimmetrico

Piuttosto che essere un confronto aperto sul regionalismo rafforzato - offerto dalla possibilità per le Regioni di potere incrementare la propria competenza legislativa nelle materie indicate dell’art. 116, comma 3, della Costituzione – quello in corso sembra avere aperto un varco inteso a legittimare una ulteriore revisione del Titolo V della Carta.

E già, perché con la preoccupazione e la quasi certezza dell’impossibilità di rintracciare oggi le risorse per assicurare i LEP, si mettono in forse due articoli della vigente lettera costituzionale:

  • l’art. 117, comma 2, lett. m, che impone allo stato di determinarli “concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”;
  • l’art. 119 che introduce nell’ordinamento il cosiddetto federalismo fiscale, attuato dalla anzidetta legge 42/09 e dai suoi decreti delegati che rinviano la sostenibilità dei LEP al criterio dei costi e fabbisogni standard, assistiti ove occorra dalla perequazione ordinaria.

E dire che sulla base di questi due importanti articoli della Costituzione era stato affidato ad essi LEP il ruolo imprescindibile di assicurare l’esigibilità dei diritti scaturenti da tutte le materie individuate nei commi 2 e 3 dell’art. 117, riguardanti rispettivamente quelle di competenza esclusiva statale (32) e concorrente (20), cui vanno necessariamente ad aggiungersi quelle di competenza residuale regionale (che vanno ben oltre le 20).

Una considerazione, questa, che ha altresì legittimato nel 2001 – proprio nell’intento di considerare i LEP lo strumento attraverso il quale garantire i diritti civili e sociali alla Nazione intera - la riscrittura dell’art. 120 della Costituzione ove, a fronte dell’incapacità degli organi regionali e locali di assicurare sul proprio territorio la tutela dei LEP, è stato attribuito al Governo il potere di sostituirsi ad essi nominando un commissario ad acta. Una disposizione che, seppure apparentemente limitativa dell’autonomia degli enti territoriali, la rafforza proprio perché la ritiene esclusivamente subordinata alla concretizzazione del principio di eguaglianza assicurato dalla esigibilità dei LEP, della quale mission istituzionale è chiamato il Governo a rendersene garante assumendo la guida dell’ente autonomo inadempiente.

Da qui, le tutele che la Costituzione impone alla consistenza dei LEP che - così semplificati rispetto al passato nel quale, per esempio, nella sanità rintracciava nel 1992 la definizione di livelli essenziali e uniformi di assistenza - sanciscono l’obbligo della uniformità erogativa garantita ovunque dalla lettera costituzionale novellata nel 2001.

Le motivazioni della contesa politica

Il confronto che si sta materializzando oggi sembra infatti, piuttosto che fermarsi sulle ragioni favorevoli e contrarie a che si realizzi un maggiore autonomia legislativa delle Regioni, riguardare la insufficienza delle economie indispensabili per garantire a tutti l’erogazione dei LEP, prioritariamente alle comunità meridionali.

Con questo, il dibattito trascura alcuni elementi di fondo:

  • che ad individuare le risorse necessarie per assicurare la loro esigibilità, ovunque uniforme, dovranno essere il Governo e il Parlamento attraverso le leggi di bilancio da approvare ogni anno e per il biennio successivo. Una previsione che, per essere efficace, dovrà essere tuttavia effettuata sulla base:
  1. dell’intervenuta individuazione dei LEP per materia o gruppi di materie, oggi in forte ritardo rispetto alla programmata scadenza del 31 dicembre 2024 assegnata al CLEP, destinatario di proroga di un anno;
  2. della completa determinazione dei costi standard per LEP;
  3. della rilevazione dei fabbisogni standard per ciascuna o più materia;
  • che allo stato non sono stati individuati i LEP, salvo una parziale loro circoscrizione limitata alle materie concorrenti da parte del CLEP, con ovvia impossibilità a determinarne la complessiva portata erogativa;
  • che, conseguentemente, non sono stati determinati i costi standard per LEP e né, tampoco, rilevati i fabbisogni standard regionali e, per somma, quello nazionale, indispensabili per valorizzare gli impegni di spesa relativi. In proposito, c’è da dire che stessa cosa è da rilevare in tema di fabbisogni standard quantitativi garanti dell’esercizio della funzioni fondamentali degli enti locali, cui è rimessa l’erogazione di numerosi LEP, da tempo affidati ad organismi statali (d.lgs. n. 216/2010) che hanno registrato in proposito un mega flop, tanto da imporre ai Comuni una navigazione a vista nel mare dei loro bilanci;
  • che, stante la difficoltà registrata nel completare in un anno (2023) - a cura del CLEP, della istituita Cabina di regia (comma 792) e dallo stesso Governo (comma 796) – l’improbo lavoro previsto nella legge di bilancio 2023 (commi 791-801bis) (al riguardo, è superfluo sottolineare come non ci siano comunque riusciti tutti i Governi degli ultimi 22 anni), è stata individuata, a cura del decreto legge “Milleproroghe” n. 215/2023 (art. 15), in corso di conversione in legge a cura del Parlamento, l’esigenza di un differimento delle attività da compiersi a cura della Cabina di regia a tutto il 31 dicembre 2024. Dunque, con questo è stata rinviata anche la scadenza per il Presidente del Consiglio dei Ministri per l’emanazione dei decreti legislativi (e non più dei DPCM) per ogni LEP individuato dal CLEP e per ogni costo/fabbisogno standard garante della loro sostenibilità.

Il tutto da compiersi verosimilmente entro i primi sei mesi del 2026, tenuto conto del differimento del Milleproroghe e il biennio previsto nel testo approvato al Senato del DDL Calderoli che attribuisce al Governo due anni di tempo per il suddetto adempimento regolatorio. Una scadenza, quella prevista in prossimità della primavera/estate 2026 (art. 3.1 del Ddl Calderoli nella versione approvata al Senato), che fa peraltro da pendant con il limite di tempo fissato dall’UE per mettere a terra tutti gli interventi finanziati con il PNRR, molti dei quali funzionali a rendere meglio esigibili alcuni LEP.

Sulla base di queste considerazioni, prescindendo se e quando si perfezionerà alla Camera dei Deputati l’approvazione legge attuativa del regionalismo differenziato, si dovranno fare i conti per un biennio e oltre con la spesa storica che persevererà sino al giugno 2026, dato per scontato che allora scadranno i due anni da quando diventerà, verosimilmente, legge quadro dello Stato recante le “Disposizioni per l’attuazione della autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione.

Ettore Jorio

28 febbraio 2024
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