“Non c’è legge, in Italia, né servizio pubblico, a proposito dei quali sia possibile ricordare anniversari dell’entrata in vigore. La sola eccezione è la legge 23 dicembre 1978, n. 833, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale” (Renato Balduzzi, già Ministro della salute). Ssn che ha da poco compiuto 45 anni.
Un compleanno in sordina, ricordato da parole di circostanza e commenti senza età e senza tempo, buoni per ogni occasione. Come si addice a un caro estinto. Eppure, il compleanno del Ssn, che ci ha permesso di attraversare gli anni bui di una grave pandemia, avrebbe meritato un clima diverso. Curioso che un Paese in cerca di ‘orgoglio nazionale’ trascuri la più grande infrastruttura civile e sociale che è stato in grado di creare. Trasformando “quello che per oltre 50 anni era stato un beneficio limitato a una parte dei lavoratori occupati e dei loro famigliari, con prestazioni differenziate per categoria professionale e condizionate ai contributi versati, secondo il principio proprio dei sistemi assicurativi” (Francesco Taroni), in un diritto alla salute uniforme per tutti gli italiani in eguali condizioni di bisogno.
Non si è riflettuto abbastanza sui perché del mancato successo, della mancata radicalizzazione dello spirito del Ssn nella società italiana di quel periodo e di quelli successivi. “Una legge difficile da fare” ma “impossibile da evitare” (Giovanni Berlinguer) fu sentita “fuori dal tempo”, come scrive Taroni, e fuori dal senso comune. Votata a grandissima maggioranza, malgrado “la illogicità di aver concluso in tre giorni una riforma che porta 15 anni di ritardo”, come lamentò l’on. Giorgio Bogi, ma in un clima distratto, in cui la stampa quotidiana relegò la notizia alle pagine interne e gli stessi medici e sindacati la accolsero con qualche diffidenza.
I principi fondamentali su cui è organizzato il servizio sanitario fin dalla sua origine sono rappresentati dall’accesso universale alle prestazioni in ragione del bisogno, dalla sua gratuità, grazie alla copertura fiscale, e dal carattere nazionale che mirava ad eliminare le diseguaglianze territoriali già esistenti. Pilastri che, non da oggi, scricchiolano sotto il peso di attese infinite e della migrazione lungo l’asse sud-nord. Chi può paga, gli altri aspettano o migrano. O rinunciano con punte fino a 3 milioni di cittadini.
Il carattere nazionale è ormai frammentato in 21 pezzi, caratterizzati da assetti organizzativi ed indicatori di salute molto diversi.
La gratuità va perdendo terreno, se la spesa delle famiglie è cresciuta del 43% in 6 anni fino a raggiungere la cifra di 40,26 mld nel 2022. Ormai gli italiani si pagano le cure di tasca propria, se il 74,8% delle famiglie spende per visite e farmaci. La spesa sanitaria cresce in valore nominale ma cala in termini reali (-1,6% annuo tra 2009 e 2013), è all’ultimo posto tra i Paesi del G7 rispetto al Pil, insufficiente a fare fronte alle necessità a detta anche della Corte dei conti. Incapace di tenere le retribuzioni del personale dipendente al passo della inflazione (non parliamo di premi per gli eroi del Covid!), di aumentare le dotazioni organiche, di sanare il rosso di molte regioni.
In quanto all’universalismo, cresce il carattere selettivo sotto la spinta delle carenze di risorse umane ed economiche.
La sanità italiana poggia su più “pilastri”, con la presenza “pubblica” e “privata”, a sua volta “privata-privata” e “privata-accreditata”. Che ormai vale il 17% del budget, 400 euro pro-capite, espressione di un neoliberismo che lascia spazio al mercato. Lo Stato è oggi il primo cliente della sanità privata, fornendo in gestione diretta solo il 63% dei servizi richiesti mentre acquista dal privato accreditato il restante 37%. E le strutture private sono la maggioranza di quelle che erogano assistenza residenziale (84%), semiresidenziale (71,3%) e riabilitativa (78,2%). Con i medici che godono della defiscalizzazione dell’intero salario accessorio, un ulteriore vantaggio competitivo nei confronti del sistema pubblico.
I 45 anni della sanità pubblica avrebbero dovuto rappresentare per i cittadini un momento di riflessione, per uscire dallo stato di “sonnambuli” (Censis) e interrogarsi su dove portano i regionalismi sanitari e dove vanno a finire tutti i soldi che le regioni spendono in materia di sanità, ovvero tra i 2/3 e i ¾ del loro bilancio. E su come sarà possibile curarsi quando tutto sarà privato.
Il Rapporto Censis ha appena certificato che il 2023 è stato l’anno della metamorfosi del Ssn con la “presa d’atto della fine delle promesse rispetto a quel che il Ssn può garantire. Per il 75,8% degli italiani è diventato più difficile accedere alle prestazioni sanitarie nella propria regione. All’universalismo delle cure ormai credono in pochi: l’89,7% è convinto che le persone benestanti abbiano la possibilità di curarsi prima e meglio di quelle meno abbienti. Il 79,1% teme, in caso di malattia, di non potere accedere a cure tempestive e appropriate” mentre il 30% ha già forti difficoltà a sostenere di tasca propria le spese mediche ed il 17% si attrezza con polizze integrative per una spesa di 3,4 mld.
Di certo, un sistema sanitario a mezzadria tra Governo e Regioni si presta a un palleggiamento che nasconde le responsabilità di entrambi. Favorendo l’anonimato, e la sostanziale immunità elettorale, di chi è responsabile dei tagli, a differenza di quanto accade per la spesa pensionistica dove gli autori dei tagli sono immediatamente riconoscibili. Ma i cittadini non possono limitarsi allo ‘scontento’ contemplativo. Il salto della salute al secondo posto delle loro preoccupazioni, con un balzo dal 14 al 31% in soli tre anni, con il 50% che non condivide l’operato del governo in materia, deve implicare l’ingresso a pieno titolo del tema nel giudizio elettorale, quando si è chiamati a scegliere anche in base a quanto (non) è stato fatto per il diritto alla salute. Insomma, #primadivotarepensallasalute, perché la difesa del Ssn non può essere affidata ai soli professionisti se si vuole che la sanità non sia un fatto marginale rispetto ad altre poste di spesa pubblica. Anche se le risorse investite in sanità operano come investimenti ad alto impatto (1,8 euro per ogni euro investito) su economia, ricerca, occupazione e coesione sociale
La crisi (irreversibile?) del Ssn è riconducibile a carenza non solo di risorse ma anche di riforme che ne ripensino il modello. Oltre che di una merce preziosa quanto a basso costo come la volontà politica.
Ad autonomia differenziata incombente, i Lea non sono sufficienti a mantenere un carattere unitario al sistema. Occorrono altri fili verticali, quali lo stato giuridico dei professionisti, un meccanismo di perequazione finanziaria gestito dallo Stato, requisiti uniformi di accreditamento di strutture e professionisti, l’individuazione di livelli essenziali organizzativi omogenei, le competenze delle professioni, gli accordi contrattuali e convenzionali. E luoghi nuovi rispetto al Consiglio Superiore di Sanità, ormai appaltato a una istituzione terza, in cui il lavoro e le professioni del Ssn abbiano voce nei confronti delle scelte di politica sanitaria, sul modello del Consiglio sanitario nazionale previsto dalla legge 833.
Soprattutto occorre una rivoluzione culturale che doti il lavoro medico di mezzi, spazi e tempi congrui. Affermando un’idea del tempo clinico come tempo di relazione e tempo di cura, sottratto alla invadenza amministrativa, un suo diverso valore, anche retributivo (oggi unico punto di convergenza di maggioranza e opposizione), una collocazione giuridica che riconosca la specificità del ruolo di quel capitale umano sul quale il ministro della salute Orazio Schillaci ritiene “prioritario investire per rendere la sanità pubblica più attrattiva”. E modelli organizzativi che riportino i medici, e non chi governa il sistema, a decidere sulle necessità del malato, ribaltando un processo di aziendalizzazione che protegge l’autoritarismo della catena gerarchica in un modello di governance top-down presidiato dalla politica.
I livelli assistenziali rimarranno “eventuali” più che essenziali in assenza di risorse umane in grado di assicurarli. L’attuale carenza è l’esito di un processo di abbandono di un pensiero e di un investimento sul lavoro di cura che facilita forme di uberizzazione, in cui i medici rifuggono lo status di dipendente per muoversi come autonomi cottimisti di lusso. E provoca uno stato di permacrisi in cui carichi di lavoro crescenti, retribuzioni tra le più basse d’Europa, scarse possibilità di carriera, rischi medico legali, aggressioni a getto continuo, alimentano la grande fuga dal lavoro ospedaliero. Alla ricerca di un diverso equilibrio tra vita professionale e vita privata, di una flessibilità del tempo lavoro che allontani un burnout sempre più incombente, di una retribuzione coerente con il valore della salute. C’è questo alle radici del grande scontento messo in luce da diverse inchieste, in cui i medici ospedalieri, in elevate percentuali, si dicono pentiti della propria scelta di vita o desiderosi di cambiare attività.
In un Paese alle prese con elevato debito e bassa produttività, tocca all’equità del sistema fiscale garantire le risorse per una “spesa costituzionalmente necessaria”, come definita dalla sentenza 169/2017 della Corte costituzionale, se non vogliamo trasformare la sanità nel punto di rottura dello Stato sociale. Ma occorre con urgenza un colpo d’ala della politica, abbandonando giaculatorie e promesse, per evitare che “il volo del calabrone” (Taroni) si interrompa. La partita è in corso e non siamo ancora al fischio di chiusura.
Costantino TroiseResponsabile Centro Studi e Formazione Anaao Assomed