Studi e Analisi
L’ospedale che cambia e il medico “hospitalist”
di C. Amoddeo, G. Banchieri, S. Scelsi, A. VannucciNel prossimo “Quaderno n. 45 di Quotidiano sanità” dedicato al tema “L’ospedale flessibile: quale organizzazione e quali modelli per il futuro”, realizzato a cura della ASIQUAS, Associazione Italiana per la Qualità dell’Assistenza Sanitaria e Sociale, si apre una riflessione sul modello dell’ospedale o della ospedalità anche nel nostro Paese dopo l’esperienza della pandemia da SARS-COV-2 e alla luce degli obiettivi strategici previsti nel PNRR.
Come modello di riferimento prendiamo in considerazione l’”ospedale per intensità di cura” intendendo cioè quello che si basa su un’effettiva centralità del paziente, che viene curato in modo mirato, misurando e tenendo in considerazione la sua instabilità clinica e la sua complessità assistenziale.
Ciò non significa solo maggiore appropriatezza clinica ma determina anche una riduzione delle inappropriatezze organizzative (pazienti in appoggio, letto aggiunto, aumento della degenza media): questo tipo di organizzazione risponde ai criteri di una maggiore flessibilità dei posti letto in funzione delle necessarie esigenze di ricovero.
L’”ospedale ad intensità di cure” e il medico “hospitalist”
L’”ospedale per intensità di cura”, pianificato su tre livelli assistenziali, a bassa, media e alta intensità, di fatto, in Italia si è sviluppato a “macchia di leopardo”.
È presumibile che la scarsa adesione degli ospedali (e ancor prima delle Regioni, ad eccezione della Toscana, dell’Emilia-Romagna e poche altre) a questo modello organizzativo dipenda da vari fattori che vanno affrontati nel loro specifico.
Difficoltà ed ostacoli che partono dall’attuale normativa nazionale, ancora orientata ai reparti per specialità, per arrivare al personale del comparto, forse non ancora pronto a gestire in autonomia l’assistenza ma sicuramente non supportato e incoraggiato nelle innovazioni assistenziali, che dovrebbe fornire una “piattaforma di assistenza coerente per livelli di complessità assistenziale” dove il medico trova una adeguata risposta alla gestione del percorso diagnostico terapeutico impostato per il singolo paziente.
Dal punto di vista clinico la grande scommessa, che trova ancora tante resistenze, è quella della responsabilità di cura, che in genere fa riferimento allo specialista responsabile del problema principale. Onere che deve essere condiviso con un modello diverso, dove lo specialista è tale, ma la gestione ordinaria del percorso passa ad un “generalista”; tale figura nell’orientamento attuale anche dei percorsi di studio non esiste.
Questo medico che non c’è sarebbe quello che deve avere competenze nei vari campi della medicina, non necessariamente ultra specialistiche, possedere capacità di leadership e di coordinamento degli interventi multidisciplinari e multi professionali, mantenere il collegamento con il medico di medicina generale dall’inizio e alla fine della degenza.
Si tratta del cosiddetto “hospitalist”, presente negli USA da oltre 40 anni, che ha come focus primario professionale la “care” complessiva del paziente ospedalizzato, che si assume la gestione globale del paziente. Questa figura programma il piano di cura, attiva le consulenze ritenute necessarie, ed è il responsabile della terapia, del percorso di degenza e della dimissione, diventando il trait d’union con il MMG.
Definizione di medico “hospitalist”
Un “hospitalist” è ”un medico esperto nel prendersi cura delle persone in ospedale”.
La prima volta che la parola “hospitalist” è stata usata fu nel 1996, gli “hospitalists” sono stati definiti come "specialisti in medicina ospedaliera... che sono responsabili della gestione della cura dei pazienti ospedalizzati nello stesso modo in cui i medici di famiglia sono responsabili della gestione della cura dei pazienti ambulatoriali". [1]
Nel 1999, un articolo pubblicato su Annals of Internal Medicine definiva gli “hospitalists” come "medici che si prendono cura dei pazienti ospedalizzati al posto del fornitore di cure primarie dei pazienti". Il termine “fornitore” è legato alla specificità della sanità americana nella quale operano una molteplicità di soggetti ed organizzazioni private.
Un altro articolo in Annals of Internal Medicine nel 1999 ha definito “hospitalist” “un medico che trascorre almeno il 25% del suo tempo a svolgere un ruolo quale accetta 'hand-off' pazienti ricoverati dai provider di cure primarie, restituendoli poi loro al momento della dimissione dall'ospedale”.
Due questioni importanti erano racchiuse in tale definizione:
- la prima, fu riconoscere che alcuni medici dell’ospedale, quelli principalmente impegnati nella ricerca o in posizioni di leadership non erano in grado di dedicare molto tempo alle cure dirette al paziente, pur definendosi chiaramente ospedalieri;
- la seconda, gli “hospitalist” venivano definiti in rapporto con il ruolo del medico di base. Il ruolo era troppo nuovo per essere definito da solo e doveva essere spiegato nei termini del rapporto con il profilo di altri professionisti.
In letteratura USA gli “hospitalist” non dovrebbero essere definiti dalla quantità di cure ospedaliere che forniscono, ma dalla loro focalizzazione professionale. Per molti ospedalieri, il pensiero di prendersi cura dei pazienti ricoverati solo il 25% del loro tempo sembrava riduttivo. Ad altri coinvolti nella leadership o nella ricerca, che si concentravano esclusivamente sulla medicina ospedaliera, ma si occupavano poco del paziente, la definizione sembrava restrittiva.
L'aggiornamento del 2005 dell'undicesima edizione del Dizionario collegiale di Merriam-Webster definisce un “hospitalist” come "un medico specializzato nel trattamento di pazienti ospedalizzati di altri medici al fine di ridurre al minimo il numero di visite ospedaliere da parte di altri medici".
Questa definizione è troppo limitata per essere utile o accurata. È certamente vero che la presenza di “hospitalist” significa che altri medici possono venire meno in ospedale, ma questo è lontano da quello che sono gli “hospitalist” o la medicina ospedaliera.
In soli 10 anni siamo passati dall‘avere “hospitalist” definiti in relazione ad altri medici ad avere altri medici definiti in relazione a “hospitalist”.
Negli USA il nome SHM, Society of Hospital Medicine, è stato scelto per riflettere i tanti ruoli degli associati. Per la Società SHM la definizione ufficiale di “hospitalist” è la seguente: “medici il cui obiettivo professionale primario è l'assistenza medica generale dei pazienti ospedalizzati. Le loro attività includono la cura del paziente, l'insegnamento, la ricerca e la leadership in relazione alla medicina ospedaliera”.
Questa definizione abbraccia l'ampia gamma di attività professionali svolte dagli ospedalieri. La chiave di questa definizione è l'enfasi sul focus professionale e sulla cura dei pazienti ospedalizzati.
Di fatto la definizione SHM di hospitalist riconosce che è grande la diversità di medici che prestano servizio come hospitalist e l'ampia varietà di ruoli che svolgono nel servizio di assistenza ai pazienti ospedalizzati.
I medici che servono come ospedalieri lo fanno come internisti, medici di famiglia e pediatri. Il fatto che in USA tutti questi medici possano riunirsi nella stessa organizzazione professionale parla dell'importanza dell'obiettivo unificante della cura dei pazienti ospedalizzati che definisce ciò che ognuno dei soci SHM fa.
I medici “hospitalist” in USA possono essere coinvolti esclusivamente nella cura del paziente, nella ricerca, nell'insegnamento o nella leadership o in una combinazione di questi ruoli.
Ancora una volta il principio comune è l'attenzione alla cura dei pazienti ricoverati. La Società SHM rappresenta una gamma ampia di medici in tanti ruoli.
La sicurezza del paziente, la leadership, le cure palliative e il miglioramento della qualità sono solo un esempio delle questioni che riguardano tutti gli ospedalieri. Inoltre, comprendere questi problemi e affrontarli richiede persone esperte nella cura del paziente, nell'insegnamento, nella ricerca e nella leadership.
SHM in USA è una delle poche società professionali a includere internisti, medici di famiglia e pediatri della pratica della comunità, del mondo accademico e dell'industria. Inoltre include infermieri, assistenti medici, farmacisti, infermieri e altri che arricchiscono la società.
Le competenze di un medico “hospitalist”
Questo professionista in USA riceve la stessa formazione medica richiesta ad altri medici. Mentre altri specialisti si concentrano su un sistema corporeo o una malattia, la specialità dell’“hospitalist” si concentra sull’ambiente medico dell’ospedale.
In conseguenza della sua familiarità con l’ospedale e del suo lavoro, può essere in grado di fornire al paziente cure migliori rispetto a quelle fornite dal medico di base del paziente, nei limiti della reperibilità e dell’esecuzione di turni durante le ore in cui non è impegnato con la sua pratica esterna.
Il termine “ospedaliere” è stato coniato per la prima volta in un articolo del 1996 dal Dr. Robert Watcher per il “New England Journal of Medicine. La domanda di specialisti che lavorano presso l’ospedale è aumentata rapidamente a metà degli anni ‘90.
Inoltre, l’“hospitalist” svolge un ruolo importante nella comunicazione delle informazioni e nel coordinamento delle cure con il medico di base, PCP, Primary Care Phisician, del paziente e altri specialisti. Ciò consente al PCP/MMG di risparmiare tempo, costi e inconvenienti di dover visitare l’ospedale ed essere reperibile quando i suoi pazienti visitano il pronto soccorso o vengono ricoverati in ospedale.
L’“hospitalist” trascorre il suo tempo in ospedale e può vedere uno o più pazienti durante il suo turno. Può essere impiegato dall’ospedale, da una società di cure gestite o da un gruppo medico. Inoltre, ha la possibilità di essere un “appaltatore autonomo” per questi gruppi.
Questa è una specialità medica relativamente nuova, quindi non esistono molti dati sugli stipendi. Dai dati disponibili, si ritiene che gli ospedalieri abbiano in genere un reddito simile o leggermente superiore rispetto ad altri medici con la stessa formazione. Hanno l’ulteriore vantaggio di non dover mantenere una pratica ospedaliera o ambulatoriale con tutte le spese e le responsabilità associate.
Gli “hospitalist” si trovano principalmente negli Stati Uniti, ma anche il Canada ha un numero crescente di questi specialisti. All'inizio degli anni '90, con l'accumularsi delle attività amministrative e la vita, in generale, sempre più complicata, i PCP/MGM sovraccarichi trovavano sempre più difficile visitare i loro pazienti ricoverati prima o dopo una lunga giornata di visita alle persone nei loro ambulatori. Nel frattempo, mentre gli ospedali si riorganizzavano in uno sforzo continuo per migliorare l'assistenza ospedaliera, i leader si resero conto che aveva senso avere medici interni generici, ma specializzati nella cura dei pazienti ospedalizzati. Il numero di ospedalieri praticanti in USA è cresciuto fino a superare i 50.000, rendendola la specialità medica in più rapida crescita negli Stati Uniti.
La formazione medica e le competenze di un “hospitalist” e di un PCP/MGM sono le stesse. La differenza è l'ambiente in cui praticano la medicina. Gli ospedalieri lavorano esclusivamente negli ospedali e, pertanto, hanno maggiore familiarità con i test e le procedure ospedaliere comuni, nonché con le condizioni ospedaliere come la polmonite acquisita in ospedale.
Quindi un “hospitalist” vede i pazienti solo per la durata della loro degenza in ospedale. Quando il paziente sarà dimesso, tornerà alle cure del suo PCP/MGM. Un modo per pensare alla differenza tra un “hospitalist” e un PCP/MGM sono i loro obiettivi: l'“hospitalist” lavora per soddisfare tutti i bisogni immediati del paziente, mentre è ricoverato in ospedale, e il suo obiettivo è aiutarlo a tornare a casa.
È una relazione a breve termine. Al contrario, il PCP/MGM gestirà le cure per tutto il percorso di vita del paziente.
Il modus operandi di un medico “hospitalist”.
Negli Stati Uniti, una tipica giornata lavorativa in ospedale dura circa 10 ore, si arriva intorno alle 7 del mattino e ci si prende cura di un ”censimento” di 14-18 pazienti. Gli “hospitalist” in genere abbracciano il ritmo di un programma ”7 si 7 no”, iniziando ogni turno di 7 giorni di martedì e terminando di lunedì. Sebbene questi siano tipici, ciò che conta come una normale giornata lavorativa, censimento e orario dei turni può variare da ospedale a ospedale.
Un “hospitalist” è come un “quarterback” di “football americano”, Un nodo centrale che coordina l'assistenza ai pazienti ricoverati per tutta la durata della loro degenza. Rispetto ad altre specialità mediche, gli “hospitalist” devono lavorare più a stretto contatto con una gamma molto più ampia di altri professionisti sanitari, come medici specialisti, infermieri, coordinatori infermieristici , farmacisti e “case manager” . In una giornata tipo in ospedale è probabile che un “hospitalist” abbia da 10 a 30 colleghi diversi con cui collabora alla cura del paziente.
Se combinata con le complessità della medicina ospedaliera, la complessa collaborazione interprofessionale tende a consentire errori di comunicazione, sviste, errori e ritardi non necessari. I tentativi di ridurre questa complessità e standardizzare la collaborazione interprofessionale hanno portato a modelli di assistenza come turni interdisciplinari al capezzale che enfatizzano la comunicazione faccia a faccia, un contrasto con la comunicazione che avviene esclusivamente attraverso la cartella clinica elettronica, chat sicure, pagine e chiamate.
Essendo una specialità relativamente nuova, solo di recente è stata offerta la certificazione per l'esperienza specialistica e la formazione per la medicina ospedaliera.
L'American Board of Hospital Medicine (ABHM), membro dell'American Board of Physician Specialties (ABPS), è stato fondato nel 2009. L'ABHM è stato il primo consiglio di certificazione del Nord America dedicato esclusivamente alla medicina ospedaliera. Nel settembre 2009, l' American Board of Internal Medicine (ABIM) ha creato un programma che offre agli internisti generali che esercitano in ambito ospedaliero l'opportunità di mantenere la certificazione di medicina interna con una pratica mirata in medicina ospedaliera (FPHM).
In Canada, attualmente non esistono programmi residenziali ufficiali specializzati in medicina ospedaliera. Tuttavia, alcune università, come la McGill University di Montreal , hanno messo a punto programmi di competenze avanzate di medicina di famiglia incentrati sulla medicina ospedaliera. Questo programma, disponibile per i medici praticanti e gli specializzandi in medicina di famiglia, ha una durata di sei o dodici mesi. L'obiettivo principale del programma è preparare i medici con formazione nella pratica familiare ad assumere ruoli di assistenza condivisi con altri specialisti, come cardiologi , neurologi e nefrologi, in ambiente ospedaliero. Inoltre, il programma prepara i medici di famiglia fornendo loro una serie di competenze necessarie per prendersi cura dei loro complicati pazienti ospedalizzati.
Nuovi ruoli e nuovi luoghi
In Italia non abbiamo esperienze simili. Però a fronte delle carenze di personale abbiamo l’esigenza di utilizzare al meglio le risorse disponibili. I modelli a “silos” sono ancora molto presenti anche se assolutamente datati. Determinano inappropriatezza assistenziale e clinica, costi occulti, sprechi e “malpractice”.
Abbiamo bisogno di integrare i processi assistenziali e di cura e di integrare territorio e ospedale.
Dovremmo garantire la “presa in cura” del paziente tenendo insieme continuità assistenziale e continuità informativa.
Quanto sopra dovrebbe essere supportato dalla Telemedicina e dal FSE (Fascicolo Sanitario Elettronico) che dovrebbero confluire in un’unica e condivisa piattaforma, a cui tutti, cittadini e operatori, debbano poter accedere, nel rispetto della privacy, per conoscere dati e storia clinica di ciascuno, condividere informazioni sanitarie, facilitare l’accesso ai servizi sociosanitari, ridurre sprechi e disagi.
Sappiamo che dovremo adottare nuovi modelli organizzativi di lavoro, dato che le tecnologie seguono e non guidano, o meglio non dovrebbero guidare, le attività, che sono invece primarie.
Diventeranno sempre di più protagoniste le persone, ovvero i pazienti e quindi i professionisti coinvolti nei processi assistenziali, che in futuro dovrebbero essere in grado di offrire “esattamente quello che serve a quello specifico paziente, niente di più e niente di meno”.
Questo è il punto nodale della criticità attuale dove avviene, purtroppo, anche se non sempre, l’esatto contrario. Inoltre, dobbiamo ricordare che oggi nelle strutture sanitarie applichiamo bene il concetto dell’eguaglianza, ma male quello dell’equità.
Continuiamo a dare “risposte uguali a bisogni diversi”, perché non riusciamo a distinguere fra i diversi bisogni della stessa persona e perché da decenni abbiamo reso rigida l’offerta sanitaria e sociosanitaria, obbligando la domanda ad adeguarsi.
Quindi gli ospedali andranno pensati come strutture modulari, piattaforme ipertecnologiche che potranno cambiare layout rapidamente al cambio del setting di trattamento previsto per quello “specifico paziente”, mettendo a disposizione trattamenti diversi rispetto a quelli che venivano usati fino a ieri.
L’”ospedale flessibile” dovrà avere spazi che permettano l’utilizzo funzionale a seconda delle diverse esigenze, prevedere la suddivisione dei percorsi interni ed esterni, al fine di evitare contaminazioni. Deve usare paradigmi costruttivi, quali flussi di pazienti da trattare, previsione di cambiamenti, capacità di adattamento, predisposizione di aree ospedaliere isolabili in caso di emergenza, ma sempre connesse con tutti i servizi.
Di sicuro la pandemia da SARS-COV-2 ha accelerato questa situazione, ma tutto quanto era già in essere in precedenza: la pandemia ha messo in luce forti criticità degli ospedali italiani in termini di obsolescenza delle infrastrutture.
Servivano strutture più efficienti e più focalizzate sugli utenti finali, perché gli ospedali “user centered” migliorano la soddisfazione dei pazienti e degli operatori sanitari, incrementano la produttività, abbattono i costi di gestione, contribuiscono a ridurre i rischi di cadute del 30%, le infezioni correlate all’assistenza del 35%, il turnover dello staff a causa di “burnout” del 30%, gli eventi avversi del 15% e la durata di degenza media del 10%, vedi le survey svolte dalla SHM, Society of Hospital Medicine, USA.
Ci poniamo quindi le seguenti domande:
Il tutto deve essere accompagnato da altre logiche assolutamente primarie, quali ecosostenibilità, orientamento, inclusività, complessità, accessibilità e infrastrutture “green”.
Questi sono solo alcuni dei nuovi criteri per progettare gli ospedali contemporanei.
Dobbiamo chiederci oggi come procedere per ottenere nel tempo minimo necessario il risultato atteso, ovvero la riorganizzazione del SSN/SSR secondo le regole di sviluppo e di realizzazione di un progetto, Project Management.
È necessario integrare in una visione unica il percorso clinico, diagnostico, terapeutico e assistenziale, indipendentemente dalla sede fisica dell’erogazione dei servizi (territorio o ospedale), dall’assetto societario dell’organizzazione che lo sta erogando (pubblico, privato), dal gestore del budget (Regione, Azienda sanitaria, Comune, …), in una visione olistica nella risposta integrata che dovremo dare a bisogni, spesso complessi non per problemi clinici, ma resi tali per l’inadeguatezza della risposta, spesso retaggio di norme, leggi e regolamenti, funzionali a tutelare posizioni o appartenenze senza fornire la risposta migliore per quel paziente.
Lavorare insieme richiede il valore aggiunto del fare rete e il ruolo del middle management
Il lavoro congiunto di tutti i professionisti (medici, direttori, infermieri, farmacisti, ingegneri -ospedalieri, informatici, clinici, gestionali, architetti, …) ha messo in luce un grande “valore aggiunto” determinato da “multi professionalità e multidisciplinarietà”, dimostrando che le competenze manageriali non sono qualcosa di estraneo e aggiuntivo alle competenze tecniche e professionali di chi opera nel mondo ospedaliero e sanitario, ma parte integrante dell’identità professionale.
In particolare, la funzione del “middle management” è proprio quella di essere autorevole e riconosciuto sul piano delle competenze tecniche e professionali e quello di sapersi muovere e relazionare all’interno dell’Azienda, guidando il proprio gruppo o unità operativa. Si è sempre più delineata una figura completa, che sa far uso di strumenti manageriali attraverso i quali incidere in modo più efficace sui processi decisionali aziendali. Il tema della managerialità è strettamente connesso a quello della responsabilità.
Collocandosi in una posizione intermedia tra il vertice strategico e le articolazioni più operative, il “middle management” svolge una funzione di cerniera fondamentale nella catena delle responsabilità e nel perseguimento degli obiettivi aziendali.
Le competenze di “project management” in sanità sono e sempre di più saranno alla base di questi cambiamenti epocali collegati alla realizzazione degli “ospedali flessibili”.
Per guidare questa ricostruzione è indispensabile avere a disposizione competenze diffuse di “project management” e un notevole numero di “project manager” qualificati.
Ciò vale a maggior ragione per la Pubblica Amministrazione, che deve progettare e guidare, allo stesso tempo, sia come fronteggiare le eventuali emergenze, sia come indirizzare la fase di ricostruzione.
Pensiamo ai cambiamenti previsti e imposti dal PNRR, ovvero il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che prevede reti di prossimità, strutture e telemedicina per l’assistenza sanitaria territoriale, innovazione, ricerca e digitalizzazione del SSN.
Quindi riferito a un contesto esterno agli ospedali, ma che obbligherà a pensare gli stessi diversamente da come li abbiamo considerati fino ad oggi.
Il primo vero progetto sarà quello di avere “persone giuste nei posti giusti per i tempi giusti” per presidiare questa importante e, forse, unica opportunità di cambiamento e adeguamento del SSN/SSR ai bisogni dei cittadini, dopo oltre 20 anni in cui abbiamo forzatamente obbligato tali bisogni ad adeguarsi ad un’offerta sempre più rigida e inadeguata.
Quindi il primo problema è chiarire quale modello di sanità pensiamo di attuare in Italia e a seguire nelle diverse Regioni, sapendo che conviviamo da oltre 20 anni con 21 SSR profondamente diversi nei risultati di salute ottenuti: necessitano azioni di cambiamento diverse con tempi diversi di attuazione.
Il secondo problema sarà capire quale tipo di “project manager” ci servirà per raggiungere questo obiettivo.
Il terzo riguarda quali nuovi assetti organizzativi e sistemi di pianificazione, programmazione e controllo prevediamo di implementare, visto che dovranno essere diversi dai precedenti, perché tracceranno modelli, attività, esiti e relazioni interprofessionali diversi da quelli fino ad oggi utilizzati.
Il primo punto ci porta a parlare di pazienti ed ecosistemi, ovvero del passaggio dai “silos verticali” con cui è strutturato l’attuale SSN/SSR, agli ecosistemi, trasversali e dialoganti fra loro, fondati sulla complementarietà e sulla condivisione dei dati, che consentono di fornire ai cittadini un servizio integrato e personalizzato, accrescere la produttività “sana” delle strutture sanitarie e di tutti i fornitori dei servizi resi alla persona, migliorare le cure e il loro accesso, oltre che garantire una stabile continuità assistenziale, usando bene le leve importanti dell’”empowerment” e dell’”engagement” del paziente e dei suoi familiari.
Questi ecosistemi vanno definiti sulla base dei bisogni dei diversi pazienti e dei percorsi di cura, assistenziali e socio-sanitari più efficaci per rispondere in maniera specifica.
Il secondo punto ci porta a parlare di “management by project” per indicare un nuovo approccio organizzativo che applica metodi e tecniche alle funzioni operative.
Un approccio complementare è la metodologia “Lean”, parte integrante dell’”Operation Management”, i cui principi specifici riguardano l’individuazione e lo sviluppo dei flussi di valore delle attività, processi snelli e guidati dalle attività a valle, l’eliminazione degli sprechi, delle duplicazioni e delle inefficienze (costi della non Qualità) con interventi correttivi in tempo reale.
Infine, il terzo e ultimo punto ci porta a pensare i nuovi modelli di monitoraggio e controllo dei risultati raggiunti in termini complessivi di “salute” prodotta, in linea con il concetto di “salute”, che dal 2011 l’OMS ha definito come “la capacità di adattamento e di autogestirsi di fronte alle sfide sociali, fisiche ed emotive”.
Questa nuova definizione ci porta a prevedere un uso più razionale delle risorse con esiti positivi sulla salute delle persone. In conclusione, vivremo nei prossimi anni un’obbligata stagione di cambiamenti, ovvero dovremo realizzare un sistema capace di dare risposte diverse e differenziate ai bisogni specifici ed individuali, una cosa facile a dirsi ma molto difficile a farsi, come dimostra la storia del nostro SSN/SSR.
I nuovi ospedali “flessibili” saranno parte essenziale di questo futuro.
Conclusioni
In conclusione, per avere nuove reti assistenziali e cliniche, nuovi “ospedali flessibili”, servono nuovi modelli organizzativi e gestionali e nuovi ruoli di integrazione e di governance. Guardiamo fuori dal nostro Paese e copiamo con intelligenza da altre realtà contestualizzando in modo rigoroso le buone pratiche da importare.
In sanità e sul tema salute “copiare con intelligenza” non è un peccato …
[1] Wachter RM, Goldman L. Il ruolo emergente degli "ospedalieri" nel sistema sanitario americano. N Inglese J Med . 1996; 335:514-517.
Caterina Elisabetta Amoddeo,
Vice Presidente Nazionale ASIQUAS;
Giorgio Banchieri,
Segretario Nazionale ASIQUAS, Docente DiSSE, Università “Sapienza”, Roma.
Silvia Scelsi,
Presidente Nazionale ASIQUAS, Istituto “Gaslini”, Genova;
Andrea Vannucci,
Socio ASIQUAS, Professore a contratto di programmazione, organizzazione e gestione delle aziende sanitarie DISM UNISI.