toggle menu
QS Edizioni - mercoledì 27 novembre 2024

Studi e Analisi

I Forum di QS. Sanità pubblica addio? Doni: “Non esistono ricette magiche”

di Laura Doni
immagine 8 aprile - Con questo mio intervento il mio intento è quello di allargare la discussione a tutta la società civile, perché se vogliamo preservare il diritto alla salute attraverso una Sanità pubblica, tutti abbiamo delle responsabilità e siamo chiamati ad avere un ruolo attivo

Sono un medico che svolge quotidianamente con passione la sua professione, ma sono anche una donna. Credo fermamente nella Sanità pubblica, che in questo momento è come se fosse un corpo gravemente malato. Pertanto l’invito a partecipare a questo Forum ha risuonato in me come una “chiamata alle armi”.

Parto subito da una precisazione: per definirmi ho usato il termine medico e non “medica” perché amo e pratico la Medicina, quale scienza ed arte che persegue la salute dell’Uomo e, in quanto tale, trascende il genere. Sento però la necessità, come la maggior parte delle mie colleghe, di prendere le distanze dalla struttura che fino ad oggi ha governato la Medicina e la Sanità: una struttura costruita da uomini. Credo peraltro che un fattore chiave per provare a superare la crisi che stiamo vivendo possa nascere proprio dalla riflessione sul sistema valoriale vigente: un ambito in cui le donne possono e forse devono avere un ruolo propositivo. Non si tratta pertanto di scendere su un piano puramente tecnico di possibili soluzioni, ma di provare ad avere un’idea nuova, come invita Cavicchi stesso nel suo ultimo libro “Sanità pubblica addio”.

La riflessione ruota intorno alla domanda: “come possiamo evitare di arrivare al punto di non ritorno?” Qual è il punto a cui dobbiamo ritornare? Forse il diritto alla salute universale? Se così è, di fatto, come spiega bene Cavicchi nel suo libro, è come se non fossimo mai partiti perché tra riforme e contro-riforme il diritto alla salute è stato relativizzato al contesto delle risorse disponibili. A rigore non è mai stato un diritto fondamentale, perché si è teorizzata una sanità universalistica in un contesto sociale che nega l’universalismo quale valore, essendo neoliberiste le logiche governati, allora come oggi, il sistema politico ed economico. Il primo passo quindi, e trovo che sia tutt’altro che scontato, è quello di chiedersi quale Sanità vogliamo e quali principi debbano ispirarla.

Se riteniamo ancora oggi validi i principi ispiratori dell’articolo 32 della Costituzione, dobbiamo evitare di fare gli stessi errori commessi nel passato quando, con la riforma 883 del 1978, si è istituito un Sistema Sanitario Nazionale che non teneva conto delle mutate condizioni sociali, politiche ed economiche avvenute nei trenta anni precedenti. Dobbiamo inevitabilmente partire dall’analisi del contesto socio-politico ed economico attuale, perché la Sanità non è un contenitore indipendente.

Il momento che stiamo vivendo è indubbiamente un momento di crisi generalizzata: a partire dall’ordine internazionale liberale, per passare all’economia globalizzata, che dopo il periodo di espansione successivo alla Guerra Fredda con riduzione importante dei tassi di povertà in tutto il mondo, sta minando la tenuta del sistema neoliberale stesso, proprio in virtù dei pochi vincoli posti, aumentando la distanza tra le attese di benessere, pace e stabilità ed i risultati osservati con crescita delle diseguaglianze, insostenibilità ambientale, precarizzazione del lavoro e diffusione di un senso di insicurezza in larghe fasce di popolazione.

Come se non bastasse, la Medicina, le Scienze tutte sono in profonda crisi. Di “crisi delle scienze europee” ne parlava già Husserl a metà del secolo scorso, spiegando che la crisi è il risultato della separazione della scienza dalla filosofia, con conseguente allontanamento dello scienziato dalla sua vera natura di uomo libero. Quanto gli uomini di scienza odierni sono davvero liberi nell’esercizio della scienza stessa? Riflettere su questi temi è tutt’altro che sterile, perché è la società tutta che poi è chiamata a sostenere economicamente il prezzo della scienza e delle sue applicazioni.

Ma anche la Medicina è in profonda crisi perché sbilanciata dal tecnicismo a discapito della relazione. Perché lungi dall’essere quella “scienza impareggiabile” come la definisce Cavicchi, è sempre più vittima del riduzionismo quale estrema conseguenza del pensiero positivista. Dobbiamo quindi chiederci se il modo di fare medicina oggi sia quello giusto; cosa sia realmente la Medicina; se stiamo davvero progredendo nella conoscenza dell’essere umano e delle sue malattie, oppure se stiamo semplicemente alimentando uno sviluppo puramente tecnico, e quante risorse destiniamo a questo.

Parafrasando Galimberti, dobbiamo capire che la tecnica non è più a servizio dell’uomo, in questo caso del medico, ma che è il medico a servizio della tecnica, e che questo processo ha snaturato completamente la particolarità, l’individualità ed il ruolo del medico stesso e, di conseguenza, il suo rapporto con il paziente. In questa riflessione si inseriscono anche i mezzi di comunicazione: quali responsabilità hanno i media nella costruzione sociale della realtà e più in particolare nell’attesa di un benessere che si scontra ancora inevitabilmente con i limiti della medicina?

Quanto lo scostamento tra l’atteso e la realtà favorisce un circolo vizioso, anche grazie alle possibilità apparentemente infinite offerte dalla tecnica, che consuma risorse ma non risponde fino in fondo ai bisogni ultimi dell’Uomo, alimentando peraltro sentimenti quali la rabbia che poi rischia di sfociare nella violenza? Ricordiamo a tal proposito quanto scrisse Vladimir Ivanovic Vernadskij, fondatore dell’Accademia Nazionale delle Scienze dell’Ucraina: “la concezione scientifica del mondo non è una struttura logica astratta: è invece l’espressione complessa e peculiare della psicologia sociale”.

Cosa fare dunque?

Da più parti si chiamano in causa le donne, ricordando come al momento abbiano numericamente superato gli uomini e sfidandole dunque a proporre qualcosa di nuovo, ad essere paladine impegnate in prima linea nel risollevare le sorti di un sistema sanitario allo sfascio, magari facendo leva anche sul senso di responsabilità che dovrebbe avere la maggioranza.

Tutto questo potrebbe essere anche perseguibile in un sistema equo e non discriminatorio. Ma qui, ancora una volta concordo con l’analisi di Cavicchi che, pur ritenendo assolutamente necessaria la rivendicazione di pari diritti con gli uomini, sottolinea come questa battaglia rischi di far scivolare la riflessione su un piano puramente ideologico. Andando a fondo nell’analisi del problema, scopriamo che le donne spesso non fanno carriera perché preferiscono non abbandonare il lavoro clinico.

Forse perché la relazione di cura richiama una delle proprietà ontologiche femminili? O forse perché siamo tutte vittime della sindrome di Hermione? Il tema è complesso e richiede alle donne stesse una riflessione approfondita. Troppo frequentemente siamo scaduti nella retorica del considerare la cura come ambito in cui da sempre la donna è stata relegata; ambito che la donna stessa ha negato mettendo in atto un’azione ritenuta necessaria nella lotta per la rivendicazione di uguali diritti (pensiamo all’angelo del focolare di Virginia Woolf). In realtà, oggi, più che negare occorre dare un significato diverso, in modo che le proprietà ontologiche femminili possano essere valorizzate ed usate per ripensare i rapporti sociali. Ecco che la propensione alla cura può e deve esternarsi in altri contesti come quello organizzativo.

Ecco che la cosiddetta intelligenza emotiva dovrebbe rappresentare una delle competenze imprescindibili della leadership, dovrebbe essere coltivata, valorizzata ed utilizzata come parametro nella scelta delle figure apicali. Non si tratta di teorie utopiche, perché basta fare delle ricerche approfondite per scoprire che, laddove questo viene applicato, i risultati sono sorprendenti, anche e soprattutto in termini economici. Le donne inoltre sono abituate a pensare in termini relazionali e quindi proprio da loro potrebbe partire una nuova visione della Medicina intesa come conoscenza delle relazioni.

C’è di più: l’organizzazione stessa del sistema sanitario dovrebbe seguire una logica relazionale, dove gli elementi che entrano in relazione dovrebbero essere complementari; e ciò presupporrebbe di rivedere completamente il modello di aziendalizzazione che ha insito in sé il concetto di competizione, concetto in antitesi a quello di complementarietà. Mi auguro quindi che noi donne si riesca a prendere coscienza di tutto questo e forti della nostra maggioranza, ma soprattutto coese, si riesca ad avere la forza per proporre un modello basato su un sistema valoriale differente, in cui anche gli uomini possano riconoscersi.

Mi rendo conto di non aver dato, con questo mio contributo, nessuna ricetta magica per risollevare rapidamente le sorti della Sanità pubblica, ma il mio intento è quello di allargare la discussione a tutta la società civile, perché se vogliamo preservare il diritto alla salute attraverso una Sanità pubblica, tutti abbiamo delle responsabilità e siamo chiamati ad avere un ruolo attivo. E’ giunto il momento di ampliare i nostri orizzonti e provare ad avere una nuova visione del futuro; diversamente metteremo in atto l’ennesima contro-riforma che ci porterà a raggiungere inevitabilmente il punto di non ritorno.

Laura Doni
Medico oncologo

Leggi gli altri interventi al Forum: Cavicchi, L.Fassari, Palumbo, Turi, Quartini, Pizza, Morsiani, Trimarchi, Garattini e Nobili, Anelli, Giustini, Cavalli, Lomuti, Boccaforno, Tosini, Angelozzi, Agnetti, Quici, Agneni.

8 aprile 2023
© QS Edizioni - Riproduzione riservata