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Dobbiamo ripensare più profondamente alla struttura del nostro Stato sociale. Per esempio, non è possibile fornire servizi sanitari gratuiti a tutti senza distinzione di reddito. Che senso ha tassare metà del reddito delle fasce più alte per poi restituire loro servizi gratuiti? Meglio che li paghino e contemporaneamente che le loro aliquote vengano ridotte”. Così Alberto Alesina e Francesco Giavazzi qualche giorno fa sul
Corriere della Sera.
Ho pensato di tornare su quanto scritto dai due noti economisti anche a distanza di qualche giorno perché quella frasetta buttata lì nel loro editoriale dal romantico titolo “C’era una volta lo Stato Sociale”, mi ha rimbalzato nella testa per tutta la settimana.
Niente di nuovo, intendiamoci. La stessa idea venne anche ai tempi del governo Amato del 1992, quello del blitz notturno sui conti correnti. Ma poi fu accantonata. E gli stessi concetti, se ci pensate bene, li riascoltiamo spesso in qualche convegno di menti illuminate. “Ma perché i ricchi devono avere la sanità gratis? Se la paghino, loro che possono”, dimenticando fondamentalmente due cose: uno, che la sanità non è gratis per nessuno tranne che per gli evasori; due, è che proprio grazie ai contributi di chi ha di più che si riesce a tenere in piedi un sistema di cure universalistico. Questo è il welfare state.
Esistono alternative? Certo. Vedi gli Usa, ad esempio, dove il sistema pubblico si limita a garantire alcune fasce e bisogni particolari e il resto è gestito in modo privato, con il risultato che decine di milioni di americani sono troppo “ricchi” per rientrare nei programmi pubblici e troppo “poveri” per pagarsi un’assicurazione privata.
Ma in ogni caso è un sistema. Con la sua logica e i suoi criteri e che continua a piacere ad almeno la metà della popolazione Usa e certamente a tutti quelli che non hanno votato e non rivoteranno Obama che quel sistema ha provato a modificare.
Alesina e Giavazzi parlano di questo? Sì, ma anche no. Perché da quanto scrivono si può dedurre più di una conclusione. La più imbarazzante è che, me ne scusino fin d’ora, non hanno ancora capito come funziona la nostra sanità.
Intanto sembrano non sapere che da tempo non esiste più un contributo malattia o una tassa sulla salute. Da più di dieci anni il Ssn è finanziato attraverso la fiscalità generale e la determinazione della quota parte del monte fiscale da destinare alla sanità spetta al Governo.
Parlare quindi di riduzione delle aliquote fiscali relative alla sanità è impossibile, in quanto nessuno potrebbe stabilire l’entità della quota parte contributiva o fiscale teoricamente destinata alle cure mediche. Si dirà, facciamolo in modo proporzionale al reddito. Fantastico! Sarebbe come dire che la salute di un “ricco” vale più di quella di un “povero”.
L’unico criterio oggettivo per fare l’operazione di Alesina e Giavazzi sarebbe quello di restituire ad ogni contribuente in uscita dal Ssn l’ammontare della spesa media procapite che il Ssn sostiene ogni anno per i cittadini. Tradotto, 1.891 euro l’anno per ciascuno. Esiste nel mondo un’assicurazione privata in grado di offrire le 4.500 prestazioni comprese nei livelli di assistenza del Ssn a quella cifra?
Evidentemente no. E infatti la proposta dei due economisti va letta in una chiave più ampia, che da parte loro sarebbe stato però più onesto chiarire meglio.
Proviamo a farlo noi in loro vece. Sappiamo che nel Mondo esistono da sempre due grandi tipologie di sistemi sanitari: quelli basati su logiche di welfare redistributivo e quelle basate, in tutto o in parte, sul “fai da te”, ovvero incentrate sul pensiero dello Stato leggero che non si assume oneri sociali collettivi, preferendo che siano i singoli a gestire i propri bisogni (sanitari, di istruzione, di mobilità, ecc.), salvo la salvaguardia di particolari e limitate tutele.
Da questa dicotomia, al di là delle molteplici variabili applicative, non si scappa.
L’ipotesi di Alesina e Giavazzi rientra evidentemente nella seconda fattispecie. E si immagina un sistema misto, con l’esclusione dall’assistenza sanitaria pubblica dei ceti più abbienti, sul tipo, immaginiamo, di quanto avviene negli Usa.
L’opzione è legittima, ma quello che dovremmo finalmente discutere è, non tanto se ci piaccia o meno, quanto se conviene e a chi?
Nel 2010 (ultimo dato confrontabile) la spesa sanitaria (pubblica e privata) italiana si è collocata al 9,3% del PIL (di cui il 7,38% è la quota di spesa pubblica), quindi leggermente al di sotto della media Ocse (9,5%) e significativamente inferiore a quella di Olanda (12%), Francia e Germania (11,6%) ma anche della Gran Bretagna (9,6%).
Improponibile il paragone con gli Stati Uniti (che invece sembra stuzzicare la fantasia dei due economisti) che, con la loro spesa pari al 17,6% del PIL, continuano a dimostrare che il “fai da te” in sanità alla fine provoca un volume di spesa molto più elevato di quello dei sistemi di welfare sociale con abusi di farmaci, chirurgia, analisi e quant’altro, a vantaggio forse di chi li produce ma non certo della salute di chi li compra.
Di fronte a questi dati una risposta al quesito del cui prodest l’ha data il ministro Balduzzi
nella nostra intervista di una settimana fa, pochi giorni prima dell’articolo di Alesina e Giavazzi. Avevamo chiesto infatti al ministro cosa pensasse della tesi secondo la quale, con questa crisi, la sanità per tutti è un lusso che non possiamo più permetterci.
Ci ha risposto così: “
Il nostro è uno dei sistemi sanitari considerato tra i migliori del mondo, a differenza di molti altri settori dei pubblici servizi italiani. E questo spendendo meno degli altri e offrendo una qualità spesso migliore. Mi sembra quindi un po’ difficile sostenere che un sistema sanitario così non sia sostenibile, perché allora dovremmo dedurre che non ci sono sistemi sanitari sostenibili”.
Trovo che la controdeduzione finale proposta da Balduzzi, che possiamo leggere anche così “noi costiamo meno e diamo di più, perché cambiare?”, sia forse la risposta più semplice e pacata da dare. Senza ideologismi o difese d’ufficio della sanità pubblica.
I numeri dimostrano infatti inequivocabilmente che i servizi sanitari di stampo universalistico e basati sulla fiscalità generale costano meno e offrono più degli altri.
A favore della proposta di Alesina e Giavazzi resterebbe quindi solo il fatto che una quota parte di imposte potrebbe essere stralciata e riversata nell’economia per dare impulso alla crescita. A parte la difficoltà di stabilire (l’abbiamo visto sopra) l’entità di tale quota, resta però un altro fatto incontestabile con cui fare i conti: pagare meno tasse non fa certo ammalare di meno.
I “neo ex utenti” della sanità pubblica, immaginati dai due economisti, dovrebbero infatti comunque provvedere a tutelare la propria salute o assicurandosi con premi molto salati oppure pagando cash ogni bisogno sanitario.
Nel primo caso, abbasseremmo le entrate dello Stato ma probabilmente alzeremmo la spesa sanitaria finale come avviene negli Stati Uniti senza alcun vantaggio sul piano sanitario (basta confrontare gli indici di salute di italiani e americani).
Nell’altro caso rischieremmo di assistere all’impoverimento di interi nuclei familiari che dovrebbero impegnare beni e sostanze per pagarsi tutto, compresi interventi chirurgici ordinari, come ad esempio un intervento per il cancro alla mammella (lo sanno Alesina e Giavazzi quante migliaia di donne lo fanno ogni anno?) che costa tra i 20 e i 30 mila euro, escluse tutte le terapie successive.
Detto tutto questo è comunque indubbio che i costi della sanità continueranno a crescere, soprattutto per l’invecchiamento della popolazione, come sottolineano i preoccupatissimi economisti che fanno apparire la conquista di dieci di vita in più degli ultimi tempi quasi come una disgrazia, anziché una straordinaria conquista.
Che fare? Possiamo immaginare di alzare l’asticella del Pil sanitario all’infinito? E’ ovvio che se il Paese non riprende a crescere ciò non si potrà fare ma tra questa prospettiva e quella dello smantellamento del Ssn per un’avventura al buio, esistono altre cose che si possono fare.
Primo. Riorganizzare e rendere finalmente coerenti e complementari i fondi sanitari integrativi, rivalorizzando quei 30 miliardi di spesa privata oggi dispersi in mille rivoli e che potrebbero invece essere volano di forme assistenziali innovative, soprattutto nell’area della non autosufficienza, affiancando, anche finanziariamente il Ssn.
Secondo. Dare finalmente impulso all’industria della salute che già oggi crea ricchezza per il Paese (la sanità costa pesa per il 7,3% del Pil ma restituisce valore al Paese per quasi il 13% del Pil) comprendendola strategicamente tra i grandi settori ai quali rivolgere gli investimenti infrastrutturali e per l’innovazione.
Terzo. Ripensare al modello di federalismo sanitario fin qui approntato che si è rivelato contraddittorio e ridondante nelle attribuzioni tra i diversi livelli di competenza statale e locale e soprattutto dispendioso nella gestione delle politiche finanziarie (pensiamo solo a quanto si potrebbe risparmiare se, anziché fare centinaia di gare locali per l’acquisto dei beni e servizi sanitari, si potessero fare gare di approvvigionamento nazionale).
Quarto. Rimodulare i livelli essenziali di assistenza alla luce dei nuovi bisogni assistenziali e di ferrei criteri scientifici di appropriatezza. La vera revisione della spesa sanitaria dovrebbe iniziare da lì!
Si tratta di quattro cose realizzabili a costo zero. Che avrebbero ricadute straordinarie per la garanzia del diritto costituzionale alla tutela della salute ma anche per i conti dello Stato e per il rilancio dell’economia del Pase. Senza demagogiche scorciatoie che non si sa neanche a chi gioverebbero.
Cesare Fassari