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QS Edizioni - giovedì 26 dicembre 2024

Studi e Analisi

Autonomia differenziata. Distinguiamo le regole del cambiamento da quelle di garanzia dei Lea

di Ettore Jorio
immagine 8 febbraio - Sul cosiddetto Ddl Calderoli c’è tanta confusione in giro. Proprio per questo si avverte la necessità di una corretta analisi del contenuto delle norme esistenti e dei testi destinati a divenire tali, per pervenire ad una maggiore chiarezza su una tematica dalla quale dipenderanno le sorti del Paese e il trattamento della Nazione, senza che quest’ultima subisca discriminazioni territoriali impossibili da sopportare

Il DDL Calderoli, così come fecero quelli Boccia e Gelmini, attuativo dell’art. 116, co. 3, Cost., sollecita il dibattito sul regionalismo differenziato ovvero, se si preferisce, sulla autonomia differenziata delle Regioni, ma legislativa.

Al riguardo, c’è tanta confusione in giro. Proprio per questo si avverte la necessità di partecipare al confronto al fine di contribuire ad una corretta analisi del contenuto delle norme esistenti e dei testi destinati a divenire tali.

Più cura alle interpretazioni
Un dovere da parte degli studiosi della materia è quello di lavorare al fine del conseguimento della chiarezza, dal momento che il tema è divenuto soprattutto oggetto di antagonismo politico. Così come tutte le contese avrebbe tuttavia bisogno della conoscenza approfondita degli atti normativi presupposti, soprattutto di quelli costituzionali e attuativi della Carta, solo che si vogliano evitare argomentazioni distorsive.

Da qui, la necessità di cogliere ogni occasione, che una tale importante rivista offre, per pervenire ad una maggiore chiarezza su una tematica dalla quale dipenderanno le sorti del Paese e il trattamento della Nazione, senza che quest’ultima subisca discriminazioni territoriali impossibili da sopportare. In proposito, ritengo che sia necessario deporre le armi dell’allarmismo, del tipo porre l’autonomia legislativa differenziata (facoltativa) delle Regioni alla stregua di strumento di distruzione massiva dell’esigibilità dei diritti sociali nel Mezzogiorno. Così non è affatto.

Del resto, esso rappresenta un sito geo-demografico da decenni mortificato, che certamente non è affatto felice e soddisfatto da quanto l’attuale assetto normativo, per esempio della sanità e dell’assistenza sociale, offre ai cittadini che lo vivono. Diventa difficile pertanto pensare di difendere il suo status quo, nel senso di mantenerlo tale e quale nella definizione dei principi regolatori e delle norme generali nonché delle metodologie di finanziamento pretese dall’art. 119 della Costituzione e lasciate incoscientemente nel cassetto dalla politica tutta.

D’altronde, tutto ciò che riguarda l’individuazione dei Lea e la determinazione dei costi/fabbisogni standard nulla ha a che fare con il testo Calderoli (così come in quelli Boccia e Gelmini) perché trattansi di adempimenti, rispettivamente, risolti con i Dpcm del 2001 e del 2017 e con un federalismo fiscale purtroppo lasciato sulla carta, costituzionale e ordinaria. Ove mai tutte e tre le iniziative (Calderoli, Gelmini e Boccia) hanno avuto il pregio, seppure con metodologie diverse, di risollevarli dalla polvere.

Distinguiamo le regole del cambiamento da quelle di garanzia dei Lea
Andando per schemi, ritengo qui riassumere i tre problemi esistenti sul tappeto sui quali occorrerebbe ragionare per capire meglio, scevri da ogni condizionamento politico

Il primo riguarda i livelli essenziali di prestazioni - i Lea in sanità e, dal 2017, anche nel sociale sono già scanditi da tempo - che dovranno essere individuati al più presto sulla base delle materie ad essi riferibili di volta in volta.

Quanto ai livelli assistenziali sociosanitari sono stati individuati all’indomani della revisione costituzionale che ebbe a prevederli costituzionalmente, più esattamente con il Dpcm 29 novembre 2001, cui la Corte costituzionale (sent. 134/2006) attribuì indirettamente espressione legittima statale sempre che fosse adottato “sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province”.

Appaiono pertanto immotivate le critiche mosse al Ddl Calderoli relativamente alla individuazione dei Lep da perfezionarsi tramite un Dpcm, ampiamente riconosciuto da 22 anni come strumento amministrativo-regolamentare idoneo al ruolo, purché indicato come tale, per l’appunto, da una legge statale.

Il secondo - che assorbe più consenso sociale tenuto conto del diffuso malfunzionamento della sanità pubblica - è quello di stigmatizzare la insufficienza delle risorse destinate all’assistenza sociosanitaria e la evidente sperequazione dei relativi finanziamenti assicurati al nord piuttosto che al sud.

Tutto questo avviene senza pensare però alle responsabilità che appartengono alla politica, nella sua interezza. Quelle di avere perpetrato da sempre il finanziamento sulla spesa storica e di aver impedito dal 2001 in poi che si insinuasse il criterio metodologico fondato su costi e fabbisogni standard, assistito dal fondo perequativo.

Una previsione costituzionale (art. 119) voluta nel 2001 dal centrosinistra e sostenuta dal referendum confermativo dell’autunno di quell’anno, una norma attuativa dell’anzidetto art. 119 approvata con un ritardo di otto anni con la legge delega 42/2009, un decreto delegato, il d.lgs. 68/2011, regolativo dei costi/fabbisogni standard e dell’avvio del fondo perequativo lasciati incoscientemente fermi al palo.

Il tutto con la conseguenza di aver lasciato la salute dei cittadini in balia delle vecchie metodologie finanziarie basate sulla spesa storica, succeduta a quella formata con il criterio della quota capitaria pesata.

Tanta fu l’abitudine ad un siffatto disaggregante metodo di finanziamento della spesa storica, altamente discriminante, che lo troviamo a fare capolino - quantomeno come solo riferimento dopo il tentativo di lasciarlo in piedi a tempo determinato di un anno e più - anche nella legge di bilancio per il 2023, a titolo di guida per gli adempimenti ivi previsti per l’avvio del criterio fondato su costi e fabbisogni standard.

Quel metodo che, supportato da un corretto funzionamento della perequazione per le Regioni deboli di gettito fiscale proprio, si renderà garante dell’uguaglianza e dell’uniformità delle prestazioni essenziali, salvo che non ci siano governance regionali incapaci di farlo, così come lo sono tante sino ad oggi in una al governo centrale.

Una situazione, questa, malvissuta da 10 Regioni ancora in piano di rientro e due ancora commissariate da ben oltre dodici anni.

Il terzo problema è quello di ben comprendere il significato dell’autonomia legislativa differenziata, delle procedure per concretizzarla e delle ricadute, sia riferite alle Regioni che vi accederanno che a quelle che non lo faranno.

Un tema complesso, quest’ultimo, sul quale occorrerà ritornare (per ragioni anche di spazio e di comprensibilità diffusa) con un approfondimento che va ben oltre le critiche, spesso artatamente strumentali, funzionali a sostenere oggi il contrario di quanto deciso di introdurre in Costituzione 22 anni fa (era attivo il governo D’Alema) e trascurato da tutti i governi che ne seguirono.

Ciò al fine di chiarire bene i ruoli, gli atti, gli oneri, i doveri, i percorsi di perfezionamento e le responsabilità che le istituzioni coinvolte (Stato, Regioni, Conferenza, Cabina di regia e Commissione tecnica per i fabbisogni standard e, prioritariamente, Parlamento) saranno tenute, rispettivamente, ad ossequiare correttamente e ad assumersi.

Ettore Jorio
Università della Calabria

8 febbraio 2023
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