toggle menu
QS Edizioni - venerdì 22 novembre 2024

Studi e Analisi

Stiamo andando verso una grande “Agenzia nazionale della salute”? Così pare e forse è un bene

di Ettore Jorio
immagine 20 dicembre - I presupposti, pur se con qualche incertezza normativa e attuativa, sono quelli indicati da alcune Regioni italiane che hanno già da tempo adottato una sorta di organizzazione sistemica di tipo consortile tra più agenzie (le cosiddette “Aziende 0”) , funzionali a supportare le politiche sociosanitarie integrate e la erogazione delle prestazioni essenziali relativa, assicurata attraverso una riforma (quasi) strutturale.
E’ da tempo che si constata nel Paese un sistema sanitario insostenibile, non garante dei Lea, incapace di affrontare e attenuare gli effetti delle aggressioni epidemiche, non affatto pronto ad assicurare la prevenzione ovunque, oramai di primaria importanza, e generativo di un indebitamento progressivo, in alcuni casi non ripianabile con le risorse ordinarie.
 
Una specificità e una caratteristica insopportabili, atteso che sin dai primi anni ‘90 emergevano serie difficoltà di gestione ordinaria, di formazione di un voluminoso indebitamento e di precarietà grave nella erogazione dei livelli essenziali di assistenza.
 
Tant’è che, da lì a poco più di un decennio (2007), iniziarono i commissariamenti (la Calabria nel biennio 2007/2009) e le imposizioni di piani di rientro, consistenti e difficili, a dieci Regioni: Lazio (28 febbraio 2007); Abruzzo (6 marzo 2007); Liguria (6 marzo 2007); Campania (13 marzo 2007); Molise (27 marzo 2007); Sicilia (31 luglio 2007); Sardegna (31 luglio 2007); Calabria (17 dicembre 2009); Piemonte (20 luglio 2010) e Puglia (29 novembre 2010).
 
A siffatte situazioni di gestione straordinaria fecero da pendant cinque commissariamenti ad acta, ex art. 120, comma 2, Costituzione, ai quali residua solo quello calabrese.
 
Il “mondo” che ha voluto che il tradizionale non cambiasse nonostante
 Da alcuni settori emerge la necessità di de-aziendalizzare il servizio sanitario nazionale e di agenzificarlo, l’unica scelta che gli offrirebbe l’occasione di assicurare, da subito, una performance di maggiore qualità e un futuro certamente migliore.
 
L’esigenza di intervenire legislativamente c’era e c’è, irrinunciabilmente. Forse assumendosi l’onere parlamentare di approvare una riforma quater, intervenendo non necessariamente in continuità con quelle che hanno condotto all’attuale modello organizzativo, resosi responsabile di aver generato 21 sistemi della salute, alcuni dei quali difficili a riconoscersi come garanti dei diritti costituzionali e adempienti con l’equilibrio di bilancio e del rispetto dei vincoli unionali.
 
Alla luce di tutto questo, nel post Covid-19 soprattutto, si è avvertita la necessità di alcune regioni, in una logica di produttiva imitazione, di legiferare nel senso di assumere maggiori chance riorganizzativo-assistenziali.
 
Sono cinque le Regioni che hanno provveduto nella logica del cambiamento, rincorrendolo soprattutto attraverso una sostanziale modifica del modello gestorio sotto la mentita spoglia di una «Azienda Zero» ovvero, come ha fatto la Lombardia (legge n. 96 approvata nella seduta del 30 novembre 2021), sancendo una sorta di organizzazione sistemica di tipo consortile tra più agenzie, funzionali a supportare le politiche sociosanitarie integrate e la erogazione delle prestazioni essenziali relativa, assicurata attraverso una riforma (quasi) strutturale.
 
I presupposti c’erano e ci sono
Troppe le debolezze economico-finanziarie ed erogative accumulate nei decenni da un sistema che, solo nelle realtà geografiche più consapevoli ed emancipate, è organizzato come realtà assistenziale sociosanitaria.
 
Per il resto, è imperniato su aziende della salute, per lo più retrive a caratterizzarsi come tali attraverso il loro affidamento ad un adeguato management, quasi sempre espressione della politica piuttosto che optato allo scopo di assicurare una gestione ottimale, ove occorre il risanamento dei conti e, comunque, il soddisfacimento del fabbisogno epidemiologico più attuale ed emergente.
 
Ciò è avvenuto per: il consolidato difetto di gestire l’esistente più retribuito, per esempio in termini di DRG, allontanando sempre di più dal necessario una utenza via via impoverita e integrata; arrendendosi alla concorrenza organizzata del privato erogatore; impegnando tempi biblici per la edificazione e la trasformazione delle strutture pubbliche, soggiacendo spesso agli esiti di gara affidataria di appalti spesso sopportabili per le imprese aggiudicatarie; rinunciando, irresponsabilmente, a prevedere e a programmare contro le eventuali pandemie; non curando la formazione medico-infermieristica e non investendo sulla nuova occupazione.
 
Tutto questo ha generato quanto è oggi nelle disponibilità, con i media che strillano coscientemente (!) al pericolo, spesso contraddicendosi pericolosamente. Molte regioni, già seriamente compromesse per loro conto, hanno dimostrato falle assistenziali notevoli nell’affrontare, da ultimo, l’arrivo del coronavirus, cui è stata permessa una libera diffusione senza le opportune resistenze territoriali.
 
Il tema dell’inefficienza, dell’inefficacia e della non economicità è, d’altronde, un problema vecchio del Paese, che ha reso una nazione sofferente progressivamente a causa di:
- una qualificata erogazione dei Lea ospedalieri e riabilitativi/intensivi non offerti ovunque e a chiunque, bensì assicurati quasi esclusivamente dagli IRCCS (oggi 51) che hanno dimostrato (sia nelle 30 a conduzioni private che nei 21 a gestione pubblica) di rendersi garanti di prestazioni di qualità eccellente;
 
- una tutela della salute posta a presidio del territorio con i Lea extraospedalieri  delegati alla medicina convenzionata e alla sempre più scadente rete di specialistica intermedia pubblica, anche essa erogata convenzionalmente, entrambe resesi responsabili del grande vulnus del quale ha dato prova l’assistenza territoriale durante la pandemia, che ne sollecitava invece l’efficienza e l’efficacia.  
 
L’emergenza, di solito, non fa buona regola
Il Covid ha stimolato anche altro di positivo, sul quale sarà il tempo a dare ragione o torto.
Ha sollecitato la formazione di leggi regionali di dettaglio che dessero più occasioni di rinascita imprenditoriale e organizzativa ai rispettivi servizi sanitari, rendendoli più conformi alle regole civilistiche e assicurando rinnovate esigenze di assistenza, soprattutto primaria.
 
Fatta eccezione per le altre quattro Regioni che hanno agito recentissimamente in tal senso, il Veneto ha avuto modo di intervenire qualche anno fa con la legge 25 ottobre 2016 n. 19, recante la “Istituzione dell’ente di governance della sanità regionale veneta denominato «Azienda per il governo della sanità della Regione del Veneto – Azienda Zero». Disposizioni per la individuazione dei nuovi ambiti territoriali delle Aziende ULSS”.
 
Una novità non novità, dal momento che il decisum di allora rappresenta una novità sotto il profilo meramente organizzativo, riportando in un’unica “azienda non azienda” le funzioni di governance centralizzata, di supporto decisorio gestorio e amministrativo delle tradizionali aziende della salute, territoriali e ospedaliere, tale da farle residuare in organizzazioni segnatamente strumentali esclusivamente ad un progetto fondato su compiti assistenziali, e dunque garanti dell’esigibilità dei Lea.
 
Al di là del nome enfatico attribuito alla neonata tipologia di azienda, per alcuni versi attrattivo, il legislatore regionale si è visto bene dal dare seguito a contenuti che la caratterizzassero come azienda in senso proprio, tanto da consigliare al legislatore della Laguna (e a tutte altre tre che ne hanno praticamente copiato il testo) di attribuirle l’autonomia imprenditoriale. Una sorta di incoerenza, questa, in quanto, pur richiamandosi all’art. 3 e seguenti del vigente d.lgs. 502/1992 che prescrive tutt’altro, si è limitato a riconoscerle le autonomie (amministrativa, patrimoniale, organizzativa, tecnica, gestionale e contabile) ante modifica  intervenuta con il d.lgs. 229/1999.
 
Una opzione che, proprio per la naturale complessità d’intarsio con l’ordinamento regionale della salute preesistente, non sta affatto rendendo semplice la sua attuazione, dal momento che sono trascorsi circa sei anni e la costituita azienda è appena un po’ più avanti del punto di partenza.
 
Stessa soluzione hanno più o meno adottato i legislatori del Lazio (legge 30 novembre 2021 n. 17), del Piemonte (legge 26 ottobre 2021 n. 26) e, recentissimamente, della Calabria (legge approvata il 14 dicembre 2021), imitando pedissequamente l’impianto veneto, fatta eccezione quella Calabrese, che ha ritenuto legiferare l’alternativa tra gli organi amministrativi regionali e la titolarità del commissario ad acta, ex art. 120, comma 2, della Costituzione.
 
Per il resto, (quasi) eguale la lettera, lo schema di assegnazione delle competenze, gli strumenti regolatori e le funzioni non facile da conciliarsi con l’esistente, tanto da fare pagare pegno con la sua difficile attuazione e applicazione, così come sta naturalmente registrando la Regione Veneto.
 
Il processo riformatore ha avuto inizio
Tali scelte hanno evidenziato la necessità di avviarsi verso un servizio sanitario agenzificato, con la previsione di diciannove agenzie regionali e due afferenti alle province autonome. Un modo che consentirebbe finalmente di sottrarre la gestione della salute ai desiderata della politica e dei manager dalla stessa liberamente individuati e, dunque di affidarla ad una governance venuta fuori dall’esito concorrenziale delle procedure seriamente agonistiche.
 
Ma anche per costituire filiere regionali ospedaliere uniche che:
- da una parte, eviterebbero quella assurda offerta al ribasso della qualità prestazionale prodotta dai presidi dipendenti dalle aziende del territorio rispetto a quella delle aziende ospedaliere/universitarie, sì da rendere il tutto legittimamente concorrenziale con il migliore privato accreditato;
 
- dall’altra, realizzerebbero un mercato di species, rendendo tutti gli erogatori di livelli assistenziali ospedalieri - da retribuirsi tutti a produzione e non già economicamente assistiti, come avviene ancora soventemente, a prescindere dalle prestazioni rese - soggetti di mercato contrattualmente contrapposti alle aziende di territorio, in quanto tali legittimate a spuntare nei loro confronti i migliori prezzi.
 
Ciò nella convinzione di dovere, comunque, modificare i tradizionali assetti ideologico-organizzativi del sistema sanitario nella sua interezza, nell’ottica di privilegiare e, dunque, di salvaguardare la gestione pubblica del sistema e, nel contempo, di realizzare una pubblica amministrazione caratteristica più leggera e più efficiente.
L’obiettivo è tracciato
Il futuro sarà pertanto, così come idealizzato nel lontano 2010, la “agenzificazione” del Servizio sanitario nazionale, nell’ottica di istituire l’Agenzia nazionale della salute, da disciplinare con provvedimento legislativo specifico.
 
A Costituzione vigente con una previsione legislativa quadro statale da implementare poi nel dettaglio dalle Regioni e, ove mai, in attuazione del regionalismo differenziato ex art. 116, comma 3, della Costituzione, disciplinato eventualmente con legislazione esclusiva regionale.
 
Una ipotesi potrebbe essere quella di fondarla su un nuovo modello gestorio utile a concretizzare una netta distinzione tra politica, chiamata a programmare la salute sul proprio territorio, e amministrazione sostanziale del sistema, propedeutica ad eliminare ogni duplicazione organizzativa e funzionale, nonché strumentalmente diretta al miglioramento della gestione e del controllo dell’economia specifica complessiva, nel rispetto dell’esercizio dell’autonomia regionale.
 
Un modo, questo, per isolare dall’attuale contesto ordinamentale i costi relativi e meglio evidenziare la responsabilità dei dirigenti ivi complessivamente impegnati sui risultati prodotti, così realmente misurabili sul valore di esigibilità dei Lea (al lordo dei già Liveas).
 
Ettore Jorio
Università della Calabria
20 dicembre 2021
© QS Edizioni - Riproduzione riservata