Nel maggio 2016 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha approvato
la strategia 2016-2021 per l’eliminazione dell’epatite virale, considerata una minaccia per la salute pubblica, entro il 2030. Un obiettivo - eliminare il virus dell’epatite C (HCV) - che implica la capacità di diagnosticare almeno il 90% degli infetti e trattare almeno l’80% dei diagnosticati entro, appunto, il 2030.
Le armi ci sono: la terapia antivirale ad azione diretta (DAA) contro l’HCV, con percentuali di successo che superano il 98% e applicabilità in tutti gli stadi di malattia e in tutte le fasce di età, ha cambiato la prospettiva delle persone infette con grandi vantaggi in termini di benefici sia per la salute che socio economici.
La campagna di eliminazione prospettata dall’OMS, dunque, si basa sul trattamento con DAA di tutti i soggetti con infezione attiva da HCV, indipendentemente dallo stadio di malattia epatica. Dato che si tratta di persone nella larga maggioranza dei casi asintomatiche, sono necessari interventi di screening di popolazione su larga scala per identificare e curare il maggior numero possibile di portatori dell’infezione.
Infatti, quando l’obiettivo dello screening è l’eliminazione di un’infezione, considerata un fattore di rischio di progressione in forme gravi di malattia, anche in assenza di una condizione evidente di essa, è necessario ampliare al massimo la popolazione da indagare, specie quando la condizione abbia una prevalenza non particolarmente alta come nel passato, come è oggi il caso dell’infezione da HCV in Italia.
Al riguardo, le principali linee guida raccomandano: test universali per l'HCV una tantum per gli adulti di età pari o superiore a 18 anni, lo screening dell'HCV di routine nelle donne in gravidanza e per le persone più giovani a rischio di contrarre l’HCV e uno screening ripetuto per le persone che continuano ad essere esposte a fattori di rischio per l’acquisizione dell’HCV.
E’ ovvio che, affinché una campagna di screening abbia successo, la linea di indirizzo e le modalità di effettuazione del programma devono essere accettati da tutti gli stakeholders: pubblico interessato allo screening; amministratori; professionisti sanitari.
HCV in Italia, storia dell’infezione e diffusione attuale
Per l’Italia mancano dati affidabili e aggiornati di prevalenza e incidenza dell’infezione da HCV in popolazione generale e nei gruppi a maggior rischio, dato che gli studi disponibili risalgono ad epoca pre-DAA. Per poter fornire stime attualizzate si sono quindi utilizzati modelli matematici che, pur se validati, rappresentano descrizioni parziali dei meccanismi che operano nella realtà.
L’infezione da HCV ha avuto in Italia una prima ondata epidemica negli anni ‘50 e ’60, legata a trasmissione parenterale (emotrasfusioni) o microparenterale (procedure sanitarie con materiali non monouso). Questa ondata epidemica, alle rilevazioni effettuate fra il 1993 e il 2000, risultava in un’alta prevalenza di infezione cronica nei soggetti di età superiore a 60 anni e una bassa frequenza di infezione nelle generazioni successive, grazie al controllo delle trasfusioni di sangue e al miglioramento delle condizioni igienico sanitarie.
Questo ha generato in Italia, in termini di malattia cronica conseguente all’infezione HCV, i numeri più elevati di cirrosi e di epatocarcinomi di tutta Europa. Nei 25 anni precedenti l’epoca dei DAA, circa 180.000 pazienti sono stati trattati con interferone-alfa con percentuali di eradicazione inferiori al 30%.
Considerando anche la mortalità naturale della popolazione, la riduzione globale dell’incidenza per la riduzione della trasmissione parenterale e microparenterale iatrogenica, pur con l’aumento di altre modalità di esposizione parenterale (uso di sostanze; tatuaggi; dermocosmesi), nel 2015 in Italia la prevalenza stimata di infezione HCV attiva era dell’1,4% nella popolazione adulta. Dal 2015 ad oggi sono state trattate circa 230.000 persone con un’età media di 65 anni e con percentuali di eradicazione superiori al 90%.
Sulla base di questi dati, i modelli di stima attualizzati per la prima ondata suggeriscono che in Italia rimangono ancora 100.000 pazienti con infezione da HCV attiva, la maggior parte di età fra i 60 e i 70 anni. Almeno il 20% di questi pazienti è già noto come portatore di HCV, e dunque necessita non di screening ma di linkage to care e cura, mentre per tutti gli altri in questa fascia di età è necessario uno screening estensivo prima che la loro malattia progredisca ancora.
La seconda ondata epidemica è avvenuta in Italia, a somiglianza dei paesi del Nord Europa, negli anni 1980-1990, in relazione soprattutto a modalità di esposizione parenterale inapparente (abuso iniettivo di sostanze; tatuaggi; body piercing; dermocosmesi) e in minor misura a trasmissione sessuale e a procedure sanitarie, soprattutto odontoiatriche, a rischio. Secondo i dati del Sistema Epidemiologico Integrato dell’Epatite Virale Acuta (SEIEVA), i soggetti infettati in queste due decadi hanno oggi una età fra 35 e 54 anni. L’esposizione nosocomiale rappresenta il principale fattore di rischio (42%), seguito dall’assunzione di sostanze per via parenterale (riportato dal 38% dei casi) e dall’esposizione sessuale, intesa come partner sessuali multipli o mancato uso del profilattico in corso di rapporti occasionali (30% di casi).
Per la seconda ondata, i modelli di stima attualizzati suggeriscono che in Italia rimangono ancora 280.000 pazienti con infezione da HCV attiva (prevalenza circa 0,5%) con età media di 46 anni e con picco di frequenza a 50 anni. La maggioranza degli infetti in questa fascia di età (coorti di nascita dal 1948 al 1988) è in uno stadio di malattia asintomatica e del tutto reversibile dopo eradicazione virale. Non vi sono dati utili a stimare quanti fra questi soggetti siano già a conoscenza del loro stato di infezione.
Pianificare lo screening in Italia
Nell’ottica del raggiungimento dell’obiettivo dell’eliminazione di HCV in Italia, la scelta più appropriata sarebbe quella di uno screening universale che, indipendentemente dalla prevalenza dell’infezione nelle diverse fasce di popolazione, raggiungesse l’intera popolazione. Tale tipo di intervento non è però ipotizzabile al momento in Italia, per ragioni di fattibilità e di costi.
La strategia per la ricerca dei soggetti con infezione attiva è stata dunque focalizzata in prima istanza sulla coorte di nascita 1948-1987 (quella colpita dalle ondate epidemiche cui si accennava) e sulla micro-eliminazione in specifici gruppi ad alto rischio (pazienti seguiti nei SerD; popolazione carceraria), ove si attende di trovare la maggior parte dei restanti soggetti infetti.
Le analisi di costo-efficacia avevano rivelato che qualsiasi strategia di prioritizzazione sarebbe risultata idonea ai fini del raggiungimento del target di eliminazione entro il 2030, tuttavia l’effettiva analisi di sostenibilità ha portato alla necessità di una graduazione dell’intervento per le popolazioni interessate dal Decreto Legge, con una priorità attribuita ai gruppi ad alto rischio e alla coorte di nascita 1969-1989 per il primo biennio. La scelta di dare priorità nel primo biennio alla coorte 1969-1989 rispetto a quella 1948-1968 è stata dettata da considerazioni di tipo epidemiologico, economico (controllo della spesa) ed etico.
Infatti, nella coorte dei soggetti nati tra 1969 e il 1989 ricadono coloro più esposti a fattori di rischio quali tatuaggi o interventi estetici o nosocomiali a rischio, uso precedente o attuale di sostanze non solo per via iniettiva e attualmente non seguiti dai Servizi per le dipendenze. Questa categoria di soggetti ha una bassa percezione del rischio: ha poca consapevolezza di essere stata potenzialmente esposta a condizioni di rischio e ha scarsa conoscenza dei danni connessi all’evoluzione della malattia.
Ai fini di un’eliminazione a livello globale dell’infezione da HCV entro l’anno 2030, dare priorità a tale coorte risulta più efficace in termini di riduzione sia di prevalenza che di incidenza: questa categoria di soggetti (un sommerso di portatori di HCV non superiore allo 0,5%) è infatti quella a rischio, anche se non elevato, di contagiare altri perché non ha consapevolezza del proprio stato di malattia e, in quanto più giovane, è più attiva e con una rete di contatti più ampia, che la espone a un più elevato numero di situazioni in cui potrebbe contagiare altri.
Dare priorità iniziale alla coorte 1969-1989 significa dunque puntare a contenere meglio il rischio di nuove infezioni, rispondere al bisogno di salute inespresso di una fascia di popolazione che è a rischio di progressione di malattia, e puntare su un effetto domino dello screening su interi gruppi familiari (i 30-50enni sono quelli con gruppi familiari e rapporti sessuali più ampi).
A ciò si aggiunge il fatto che agire su questa fascia di età significa potenziare e replicare l’effetto delle azioni di micro-eliminazione su persone che fanno uso di sostanze e sui detenuti (i quali in media ricadono nella medesima fascia di età 30-50 anni), poiché dà la possibilità di ripetere lo screening anche al di fuori del contesto delle carceri e dei SerD, e di effettuarlo sui loro contatti più stretti.
Ultimo ma non meno importante, dedicare il budget allocato per l’inizio del piano allo screening della fascia di età oltre i 50 anni, nonché alle popolazioni chiave già indirizzate con priorità, avrebbe probabilmente ecceduto i limiti del budget di € 71,5 milioni al momento disponibile, risultando quindi non interamente sostenibile.
La coorte dei nati tra il 1948 e il 1968, che inizialmente aveva le prevalenze molto più elevata dell’infezione, ad oggi si stima avere prevalenze simili alla coorte dei nati tra il 1969 e il 1989, grazie al maggior accesso ai trattamenti, e ha comunque un rischio più basso di trasmissione per via sessuale dell’infezione. Rimane invariato in questa coorte, rispetto all’altra, il rischio di progressione di malattia qualora non si proceda con lo screening a partire dall’anno 2023, come indicato per uno screening ottimizzato e costo-efficace in Italia.
Il futuro dello screening e dei trattamenti: occorre garantire equità. Fondamentale l’approccio integrato
Sebbene la scelta di attribuire priorità nello screening ad alcune popolazioni ad alto rischio e alla coorte 1969-1989 sia stata dettata da fondate considerazioni di tipo epidemiologico, economico ed etico, è essenziale ribadire l’assoluta importanza di garantire dopo il primo biennio l’accesso allo screening per HCV alla coorte dei nati fra il 1948 e il 1968 e ad altri gruppi ad alto rischio con specifiche caratteristiche di vulnerabilità (migranti, lavoratrici/lavoratori del sesso, uomini che fanno sesso con altri uomini), garantendo una ulteriore programmazione e dei fondi dedicati.
Tale tipo di intervento è indispensabile per completare efficacemente il programma di screening in Italia secondo i target dell’OMS e continuare a garantire quell’equità nella diagnosi e nell’accesso ai trattamenti che è stata l’obiettivo principale del sistema fin dall’avvento dei primi DAA. Per la prevenzione delle malattie contagiose e con un grande impatto clinico, economico e sociale, l’identificazione precoce deve essere garantita per tutti, nell’ottica del pieno rispetto dell’equità (verticale) che ispira il nostro servizio sanitario universalistico.
È inoltre auspicabile che si preveda un fondo ad hoc per quei costi che nella somma ad oggi stanziata dal Ministero della Salute non vengono coperti, quali il costo dell’infrastruttura medica e non medica e quello delle campagne di sensibilizzazione. Per tale tipo di costi, al momento attuale è previsto che ogni Regione provveda a integrare con i fondi per la prevenzione posti in bilancio annualmente.
Se la situazione rimane invariata le Regioni saranno costrette dunque a sostenere interamente la spesa necessaria all’organizzazione della struttura di screening; tali costi risultano però, al di fuori delle key populations ad elevata prevalenza di HCV, non giustificabili per i bilanci regionali dal momento che la prevalenza attesa nella fascia di età 30-50 anni probabilmente sarà inferiore allo 0,5%. Sul piano nazionale non dobbiamo dimenticare, infatti, che gli investimenti per un programma di screening vanno valutati sia in rapporto al numero di casi che si mettono in evidenza che alle conseguenze del mancato rilevamento.
Tra i modelli proposti per contenere i costi dell’infrastruttura medica e non medica c’è quello di uno screening contestuale alla vaccinazione per SARS-CoV-2. Questo tipo di proposta, tuttavia, risulta efficace solo in contesti dove non vi sia un aggravio economico ulteriore ma in cui vengano utilizzate esclusivamente le risorse esistenti.
Inoltre, va considerato che, sebbene l’aderenza in una popolazione testata o vaccinata anti COVID (dunque con una maggiore consapevolezza del valore della prevenzione) sarà presumibilmente maggiore, per le medesime ragioni il numero atteso degli infetti da HCV in tale popolazione selezionata, potrebbe risultare inferiore alle stime generali.
Ancora una volta il sistema di implementazione migliore non può essere altro che un sistema che preveda un approccio integrato, con la costituzione in tutte le Regioni di reti clinico-assistenziali tra medici specialisti, MMG, medici dei SerD e della medicina penitenziaria. Entro tale quadro andranno portate avanti azioni ben identificate e tra loro coordinate, nell’ottica non solo di implementare al meglio lo screening ma anche di ottimizzare il linkage to care, scopo ultimo e imprescindibile dello screening stesso.
Loreta A. Kondili
Ricercatore medico Istituto Superiore di Sanità
Lucia Craxi
Ricercatore di Bioetica Università di Palermo
Alessio Aghemo
Segretario Associazione Italiana Studio Fegato (AISF)
Francesco Saverio Mennini
Presidente Società Italiana di Health Tecnology Assessment (SIHTA)
Massimo Andreoni
Direttore Scientifico Società Italiana Malattie Infettive e Tropicali (SIMIT)