Probabilmente una “gestazione” di questo tipo nell’ambito delle pubblicazioni scientifiche non si era mai vista. A
nove mesi dalla prima presentazione al meeting “European scientists fighting influenza” a Malta, è stata infatti finalmente pubblicata la ricerca di
Ron Fouchier dell’Erasmus Medical Center di Rotterdam che dimostra come il normale virus dell’H5N1 può diventare trasmissibile tra i mammiferi – e dunque ancor più pericoloso – con sole 5 mutazioni genetiche, alcune delle quali sono già state osservate in natura. La
pubblicazione su
Science, avvenuta dopo una lunga diatriba che ha coinvolto istituzioni, ricercatori ed esperti di tutto il mondo, e sulla quale si era espressa anche l’Oms, vuole proprio scongiurare i rischi che potrebbero derivare da una diffusione del virus: “l’unico modo per essere preparati è quello di conoscere il nostro nemico”, aveva più volte ripetuto Fouchier nelle interviste rilasciate nei mesi scorsi. Il paper di
Science segue un’altra ricerca pubblicata il
mese scorso su
Nature, condotta dai ricercatori dell’Università del Wisconsin-Madison, che aveva indagato mutazioni simili sia nei ceppi di aviaria che in quelli di suina.
La storia fino ad oggi
La pubblicazione dei due articoli era stata ritardata da preoccupazioni da parte della comunità accademica, che derivavano principalmente dal rischio che una ricerca del genere potesse finire nelle mani di bioterroristi o che le precauzioni prese nello studio di agenti patogeni così pericolosi potessero non essere sufficienti. Le polemiche erano infatti iniziate a novembre, quando il National Science Advisory Board for Biosecurity (Nsabb) statunitense aveva chiesto che i due lavori non venissero diffusi, o che almeno ne venisse omesse le parti più controverse. A
dicembre e successivamente a
febbraio era intervenuta anche l’Oms, con la raccomandazione che le due ricerche fossero pubblicate senza alcuna censura. Infine, dopo uno stop di
60 giorni per dare tempo alla comunità scientifica di discutere della questione, ad
aprile la stessa Nsabb aveva rivisto la sua posizione, dando il via libera alla diffusione. Finora però solo il team dell’Università del Wisconsin-Madison guidato da
Yoshihiro Kawaoka era riuscito a pubblicare effettivamente il suo lavoro, apparso il
mese scorso su
Nature, mentre Ron Fouchier e il suo team hanno dovuto attendere l’ok del governo olandese, paese nel quale si era svolto lo studio e che aveva l’ultima parola sulla sua diffusione.
La decisione di procedere con la pubblicazione, hanno spiegato tutte le istituzioni, deriva dal fatto che i benefici che potrebbero derivare da questi studi superano i molti rischi: il ‘pro’ fondamentale, dicono gli esperti, è che conoscendo le mutazioni che rendono il virus più pericoloso si possono riconoscere nell’ambiente e dunque – forse – una pandemia letale può essere affrontata per tempo. Ed ora che si può avere accesso ai dati, e leggere le ricerche, in effetti è difficile dissentire da questa visione.
Le differenze tra gli studi
La cosa che più lascia pensare è che c’è solo una mutazione comune agli studi, il che vuol dire che sono diverse le combinazioni di alterazioni a rendere il virus dell’influenza aviaria trasmissibile ai mammiferi per via aerea. Nulla di stupefacente, spiegano gli scienziati: “Questa scoperta significa solo che ci sono vari modi per giungere allo stesso risultato”, ha commentato
Robert Webster, virologo al St. Jude Children’s Research Hospital di Memphis.
Tuttavia, come spiegano i ricercatori c’è una differenza chiave tra i due lavori. Prendendo la proteina virale emoagglutina dal ceppo dell’H5N1 e aggiungendola ad altri sette segmenti presi dal ceppo di H1N1, il team di Kawaoka aveva creato un virus ibrido, mai ritrovato in natura. Il punto centrale della ricerca del team dell’Erasmus Medical Center è invece il fatto che tutto il lavoro parte da uno stesso virus di aviaria isolato da un paziente morto per influenza in Indonesia. “Ecco perché i dati di Ron Fouchier sono così importanti, e pongono più direttamente l’urgenza della questione”, aveva ammesso anche lo stesso Kawaoka in una mail a
Science.
Ma cosa dice lo studio nello specifico?
A prescindere dalle differenze che hanno, le due ricerche portano ad un risultato simile. Il fulcro centrale degli studi è l’analisi delle mutazioni che permettono da una parte all’emoagglutina che si trova sulla superficie del virus di “attaccarsi” ai recettori che si trovano nelle vie respiratorie umane, dall’altra alla questa proteina di stabilizzarsi nell’organismo, una proprietà che permette la trasmissione aerea tra i mammiferi.
In particolare, il team olandese ha prima aggiunto tre mutazioni ad un virus di H5N1: le prime due – Q222L e G224S – hanno cambiato il gene HA che codifica per l’emoagglutina in modo che la proteina scegliesse di attaccarsi ai recettori umani piuttosto che a quelli dei volatili; la terza (E627K) modificava il gene PB2, che è coinvolto nella copia del materiale genetico, in modo che il virus fosse capace di replicarsi più facilmente anche in ambienti più freddi, come quelli in cui sono immerse le cellule dei mammiferi all’interno dell’organismo. Successivamente, i ricercatori hanno iniettato il virus direttamente nei musi dei furetti che hanno fatto da cavie, lasciando che si evolvesse naturalmente, trasmettendosi per dieci generazioni tramite contatto da un animale all’altro. Dopo questo periodo di tempo, gli scienziati hanno osservato che anche lasciando le cavie in gabbie separate, l’influenza riusciva a passare da un’animale all’altro, così dimostrando la possibilità di contagio per via aerea.
Tuttavia, il team precisa anche che man mano che diventava più contagioso, il virus perdeva di letalità: non uccideva i furetti che lo contraevano per via aerea, ma solo quelli nelle cui narici veniva spruzzato ad alta concentrazione. In più il virus dimostrava di essere sensibile alle cure attualmente a disposizione e a potenziali vaccini.
Le mutazioni non sono solo cinque
Il team di ricerca ha precisato nella pubblicazione un particolare non indifferente. Alla fine della ricerca i virus creati erano più d’uno, ognuno contenente le ormai famose cinque mutazioni, ma la realtà è più complessa: ognuno dei ceppi modificati conteneva in realtà anche altre alterazioni, che risultano essere in tutto almeno nove, comprese le cinque condivise. “Il quintetto di base potrebbe forse essere sufficiente a rendere il virus trasmissibile per via aerea tra i mammiferi, ma non siamo sicuri che non siano necessarie anche alcune delle altre modifiche”, hanno scritto i ricercatori nello studio. “Ma la domanda che ci poniamo ora è: qual è il ruolo specifico delle altre alterazioni?”. In realtà Fouchier ha già ottenuto parte della risposta, anche se si è detto non ancora pronto a diffonderla. Una volta che con il suo team aveva raggiunto il risultato che viene oggi pubblicato, aveva infatti predisposto una ricerca per capire quante e quali fossero le mutazioni necessarie e sufficienti affinché il virus si trasmettesse per via aerea. Già prima di aver concluso le ricerche gli scienziati avevano sottoposto a Science una bozza di articolo. “Di solito quando scopri qualcosa di veramente importante, nel mondo c’è qualcun’altro che lo sta scoprendo nello stesso momento”, ha spiegato Fouchier. E in effetti anche lo stesso gruppo di Kawaoka stava lavorando ad una ricerca simile, e aveva allo stesso modo spedito una bozza della sua ricerca alla stessa rivista. Per ora però, nessuno dei due gruppi è disposto ad aggiungere altro.
Laura Berardi