Trascurati e incompresi da amici, colleghi e anche in famiglia. E a volte anche da chi deve prendere in carico la loro malattia. È una strada in salita quella delle 250mila le persone che convivono con una Malattia Infiammatoria Cronica Intestinale (Mici).
Patologie che portano ad un senso di isolamento e di stigma in ogni ambito della propria esistenza. In generale, circa un paziente su tre afferma che i propri superiori, colleghi e amici hanno la tendenza a considerare i loro sintomi e condizioni di fragilità (stanchezza cronica, impossibilità di pianificazione degli impegni, scarsa socialità), come se fossero “nella loro testa”.
A questo si aggiungono le difficoltà del caregiver al quale il paziente si affida nei momenti in cui è maggiore la difficoltà gestionale della patologia, e al quale sono spesso richiesti sacrifici assimilabili a quelli del paziente in termini di qualità di vita, relazioni e attività professionale.
È quanto emerge da una ricerca di
Amici Onlus in collaborazione con EngageMinds Hub - Consumer, Food & Health Engagement Research Center dell’
Università Cattolica del Sacro Cuore - il più ampio studio che abbia mai coinvolto pazienti, caregivers e popolazione generale e i cui dati sono stati presentati per la prima volta in occasione della Giornata Mondiale delle IBD che si celebra il 19 maggio. Un’indagine che ha fotografato la percezione sociale della gravità e dell’impatto delle Mici sulla qualità di vita e relazioni interpersonali, pazienti; caregiver e società a confronto, e il cui obiettivo è diffondere la conoscenza della condizione e la qualità di vita delle persone affette da Mici, dei loro familiari e del contesto sociale in cui vivono.
In media, i pazienti hanno ricevuto la diagnosi da 15 anni (range 0-51). Il 25% si trova in una situazione di comorbilità. Il 43% ha subito ricadute o aggravamenti nell’ultimo anno. Quasi un italiano su 3 afferma, comunque, di non averne mai sentito parlare delle Mici a differenza delle altre malattie croniche: la quasi totalità dei partecipanti, infatti, conosce bene o ha già sentito parlare di celiachia, Aids e diabete, mentre meno del 70% di loro ha sentito parlare delle Mici; di questi, solo il 15% afferma di averne una buona conoscenza (per le altre malattie, questa percentuale si aggira intorno al 50%). In generale, la larga maggioranza (più dell’80%) dei partecipanti indica che almeno la maggior parte dei propri familiari e dei fornitori di assistenza sanitaria sono a conoscenza della loro malattia.
Meno bene l’ambito delle amicizie: solo nel 58% dei casi vi è consapevolezza tra gli amici dei partecipanti. Solo in poco più del 40% dei casi, infine, colleghi e superiori sono a conoscenza della condizione di salute del partecipante. Circa un paziente su tre indica di essere stato, almeno parecchio, infastidito da stati di tensione nervosa nell’ultimo mese. Quasi identica la percentuale riportata dai caregivers. Circa un paziente su tre indica di aver avuto, nell’ultimo mese, livelli di energia fisica molto bassi. Tra i caregivers, invece, solo 1 su 4 indica che il proprio parente ha avuto difficoltà a mantenersi attivo. Il 62% dei pazienti afferma che, nell’ultimo mese, non si è sentito spesso stabile ed emotivamente sicuro di sé. La percentuale riportata dai caregivers è leggermente più bassa.
Il 29% dei pazienti raggiunti afferma che, nell’ultimo mese, si è spesso sentito fisicamente affaticato dalla gestione pratica della malattia, (visite di controllo etc.). La percentuale riportata dai caregivers è leggermente sottostimata. In generale, circa un paziente su tre afferma che i propri superiori, colleghi e amici hanno la tendenza a considerare i loro sintomi come se fossero “nella loro testa”. Allarmante che il 19% lo affermi per i propri fornitori di assistenza sanitaria. La metà del campione riporta di tenere frequentemente nascosti i propri sintomi a capi e colleghi per paura di essere trattati diversamente. Più del 40% lo fa anche con gli amici, e a circa uno su quattro è capitato anche con familiari.
In generale, circa un terzo dei partecipanti riporta di sentirsi almeno talvolta colpevolizzato dagli altri per i propri sintomi. Questo sembra avvenire più frequentemente nell’ambito familiare. Più della metà dei partecipanti afferma che vorrebbe potersi sentire più aperto con amici, colleghi e superiori. Circa un terzo anche coi familiari ed uno su quattro col proprio partner.
Dai dati emerge che per i pazienti intervistati questo sia un problema molto presente nella società. La larga maggioranza, infatti, afferma che capita frequentemente, che tra i propri amici, colleghi e superiori vi siano scarse conoscenze riguardo alle Mici. Per il 60% questo è vero anche in famiglia. Da segnalare che il 28% indica che questo accade almeno “talvolta” anche con il personale sanitario. In generale, circa la metà dei pazienti afferma che talvolta o spesso i propri amici non sono interessati a sentirli parlare della propria malattia. Il 28% riporta la stessa cosa con i propri familiari, e in un caso su cinque persino col proprio partner.
Cambiare i piani per colpa della propria Mici causa, in due partecipanti su tre, nell’ambito lavorativo, incomprensioni con i propri colleghi e superiori e questo succede anche con i propri amici. Per molti, questo è causa di incomprensioni anche con i propri familiari (42%) o col proprio partner (28%). Il 22% lo riscontra talvolta anche con i fornitori di assistenza sanitaria
“Se possiamo portare a valore un aspetto del periodo pandemico – spiega
Giuseppe Coppolino, presidente di Amici Onlus, Associazione nazionale per le Malattie Infiammatorie Croniche dell’Intestino – è quello di averci aiutato a riconoscere la fragilità dell’essere umano. Sulle basi di questa nuova consapevolezza, è giunto il momento per un vero abbraccio tra gli attori coinvolti in prima linea, possibile solo attraverso un processo di inclusione che è innanzitutto culturale. Un processo culturale che si basa sul principio di “cura” che non è il trattamento terapeutico al quale ci sottoponiamo ma è un atteggiamento valoriale, una reciproca comprensione della propria condizione. In questo caso le istituzioni hanno il dovere di proseguire quel processo di sensibilizzazione già iniziato verso le fasce più deboli, ampliando lo sguardo, per favorire una miglior qualità di vita di chi soffre ma anche di chi sta vicino a chi soffre e di chi potenzialmente è nelle condizioni di esserlo, anche saltuariamente, come amici, colleghi, datori di lavoro”.
“La fotografia fatta dalla ricerca evidenzia – ha dichiarato
Guendalina Graffigna, Direttore di EngageMinds HUB e responsabile dello studio – come l’opinione pubblica italiana abbia una rappresentazione sommaria e lacunosa delle patologie Mici. D’altra parte, anche i pazienti e i loro caregivers riportano una grande fatica nelle relazioni sociali per via della scarsa sintonizzazione di amici, datori di lavoro e conoscenti circa le loro difficoltà dovute alla patologia. Al fine di evitare situazioni di stigma sociale, di isolamento e di emarginazione è oggi più che mai urgente investire nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica al fine di una migliore inclusione sociale dei pazienti e della promozione del loro diritto di una buona qualità di vita quotidiana”.
“Fin troppo spesso entriamo in contatto con storie di pazienti che non possono lavorare come vorrebbero, vengono emarginati sul lavoro o in famiglia, e sappiamo da dati nord-europei che il rischio di incorrere nella necessità di assistenza per invalidità ed inabilità è significativamente più elevato nei pazienti affetti da IBD, in particolar modo nelle fasce di età più giovanili – dice
Marco Daperno, Segretario Generale di IG-IBD (Italian Group for the study of Inflammatory Bowel disease) – con Amici Italia stiamo proponendo studi che permettano di conoscere meglio la risposta vaccinale anti Covid dei pazienti affetti da queste patologie, e abbiamo collaborato a studi sull’adeguato utilizzo dei farmaci, e co-finanziato un progetto di registro di malattia insieme ad Amici Italia Onlus presso l’Iss. Tutto questo perché crediamo fortemente che se non si conosce meglio la realtà con cui ci confrontiamo, non riusciremo a mettere in campo le risposte più corrette, e non riusciremo ad abbattere il muro del silenzio”.