Recentemente era stato dimostrato come il sistema immunitario dei topi potesse essere capace di rimuovere i peptidi beta-amiloidi, principale causa delle placche senili nel cervello che causano l’Alzheimer. Ma solo oggi è stato dimostrato che questo avviene anche negli esseri umani: aumentando la risposta immunitaria potrebbe essere possibile curare i sintomi della patologia neurodegenerativa. Questo quanto emerge da uno
studio condotto dall’Università di Exeter e dal Peninsula College of Medicine in collaborazione con il National Institute of Aging statunitense e l’Azienda Sanitaria di Firenze, pubblicato sulla rivista
Rejuvenation Research.
Per dimostrarlo gli scienziati hanno analizzatoi livelli di espressione di migliaia di geni nel sangue di circa 691 persone nella regione del Chianti. Con un comune test di memoria e delle funzioni cognitive, detto Mini Mental State Examination, i ricercatori hanno dimostrato come il gene CCR2, biomarker riconosciuto per l’attività del sistema immunitario contro le proteine beta-amiloidi, fosse anche un buon predittore delle capacità mnemoniche dei pazienti malati di Alzheimer. Un risultato consistente con dei recenti risultati, che dimostravano come nei topi il sistema immunitario fosse implicato nella rimozione delle placche senili che causano la patologia: in quegli studi, gli scienziati avevano dimostrato come sulle cavie, aumentare l’espressione di CCR2 nel sangue risultasse in capacità cognitive e di memoria migliorate. “È un risultato molto interessante”, ha spiegato
David Melzer, ricercatore all’Università di Exeter e coordinatore dello studio. “Si potrebbe presto dimostrare come aumentando la risposta immunitaria associata al gene CCR2 sia possibile rallentare la progressione della malattia. Chiaramente però, c’è ancora molto lavoro da fare, soprattutto per dimostrare che questo approccio sia sicuro ed efficace”.
Ma non solo. La ricerca è un nuovo passo in avanti nella comprensione stessa della malattia. “Stiamo pian piano identificando tutti i principali attori che entrano in gioco quando si sviluppa questa malattia neurodegenerativa”, ha spiegato la prima autrice dello studio
Lorna Harries, anche lei ricercatrice dell’Università di Exeter. “Oggi abbiamo imparato qualche pezzetto in più, che potrebbe aiutarci in futuro a sconfiggere non solo l’Alzheimer ma anche patologie correlate o simili”.