Del Dna la ricerca scopre ogni giorno qualche segreto in più. Tra questi quelli che riguardano le funzioni di regolazione e in particolare il ruolo dei più piccoli frammenti del nostro genoma. Oggi, da questo campo di ricerca arriva una nuova scoperta, che potrebbe rappresentare una speranza per prevenire e sconfiggere un tipo di leucemia mieloide acuta (Aml): un gruppo di ricerca della Ohio State University ha infatti scovato una particolare molecola, il microRna-3151, che sembrerebbe funzionare come marker prognostico indipendente della patologia nei pazienti i cui cromosomi risultano normali ad un’analisi citogenetica. Lo
studio è stato pubblicato sulla rivista
Blood.
La leucemia mieloide acuta è una malattia caratterizzata da diverse aberrazioniricorrenti nella morfologia complessiva dei cromosomi. Tuttavia, circa il 50% dei pazienti adulti affetti da AML risultano citogeneticamente normali (CN-AML). Il team ha però scoperto che in questo tipo di pazienti se il microRna-3151, una piccola molecola dal singolo filamento di Rna lungo una manciata di nucleotidi, risulta sovra espresso, i trattamenti funzionano mediamente peggio, e i malati hanno meno possibilità di remissione della patologia e aspettativa di vita più breve. I ricercatori hanno osservato questo effetto in particolare su un campione di 179 pazienti di età uguale o superiore ai sessanta anni.
Secondo gli scienziati, questa correlazione sarebbe inoltre indipendente da altre mutazioni genetiche che potrebbero essere presenti nelle cellule.
Inoltre, la molecola è codificata dal gene Baalc, che è esso stesso un marker indipendente di bassa sopravvivenza. “I pazienti che presentavano sia il microRna-3151 che Baalc in grandi quantità, dunque, risultavano avere delle prognosi ancora peggiori di chi aveva solo uno dei due sovraespresso, che a loro volta presentavano risultati peggiori rispetto a chi aveva livelli normali sia del gene che della molecola”, ha spiegato Clara D. Bloomfield, docente alla Ohio State e prima autrice dello studio. “Questo indica come questi agiscano tramite meccanismi diversi, che però danno lo stesso risultato: rendere la patologia più resistente ai trattamenti e i pazienti meno longevi”.
Lungi dall’essere solo una terribile notizia per chi presenta le alterazioni, secondo i ricercatori la scoperta potrebbe essere usata per scegliere da subito la corretta terapia con cui trattare ogni paziente, dunque andando nella direzione di una cura sempre più personalizzata.