Sembra finalmente essersi risolto il lunghissimo dibattito sulla pubblicazione delle ricerche sul supervirus dell’aviaria, modificato in laboratorio per diventare trasmissibile per via aerea tra mammiferi. Uno dei due studi che avevano fatto tanto
scalpore alla fine dell’anno scorso, che descrivevano come ottenere il ceppo letale, è stato infatti pubblicato questa settimana su
Nature, al completo.
Lo Nsabb, organo governativo statunitense volto a valutare la sicurezza di lavori che potrebbero minacciare la salute pubblica, aveva prima bloccato la pubblicazione, ma aveva poi cambiato idea: appena un mese fa ne aveva di nuovo dato il via libera, a seguito di una nuova legge del governo Obama, che – tra
dubbi e polemiche – diceva di voler aumentare la tutela dei cittadini in questo ambito.
L’influenza aviaria: perché tanta preoccupazione
La pubblicazione riguarda per ora solo uno dei due studi, quello condotto dall’Università del Wisconsin-Madison e coordinata da
Yoshihiro Kawaoka. Ancora in stand-by è invece il lavoro dell’Erasmus Medical Center di Rotterdam, inoltrato a
Science da
Ron Fouchiere dal suo team, ancora in attesa di pubblicazione.
Il virus da cui è partita la ricerca è un ceppo di influenza aviaria (H5N1), poco contagioso ma altamente letale, che dal 2003 ha colpito solo 600 persone, ma che ne ha uccise più della metà.Per capire la portata del rischio basta pensare che la nota influenza spagnola – una delle più contagiose mai viste, che nel 1918 uccise dai 40 ai 50 milioni di persone nel mondo – era letale solo per il 2% dei pazienti infettati. Il fatto che l'H5N1 non fosse trasmissibile tra umani, aveva però tranquillizzato gli esperti, rassicurando che una pandemia sarebbe stata difficilmente possibile. Fino a quando non è arrivata la notizia che in laboratorio alcuni scienziati avevano creato un virus con le stesse caratteristiche letali, ma anche capace di trasmettersi tra mammiferi.
Da quel momento si è sviluppata tutta la discussione, durata diversi mesi e cui hanno preso parte alcuni esperti dell’Oms, i ricercatori che avevano condotto la ricerca, esponenti dei governi e la comunità accademica per intero. Il dibattito aveva visto una spaccatura su due fronti: da una parte chi diceva che studi di questo genere potevano mettere a repentaglio la sicurezza mondiale, che in mani sbagliate avrebbero potuto essere usati come armi nel bioterrorismo, e che dunque non dovevano essere diffusi, quantomeno non al completo; dall’altra chi sosteneva che la pubblicazione delle ricerche in questione non solo era importante, ma addirittura essenziale proprio per la difesa della salute pubblica, poiché avrebbe permesso di migliorare la sorveglianza e di prepararsi ad eventuali pandemie, naturali, dolose o colpose.
Ma cosa dice nello specifico lo studio?
Come modello di studio, gli scienziati avevano scelto di usare dei furetti, che non solo hanno le cellule dell’apparato respiratorio simili a quelle umane, ma che quando vengono infettati dal virus starnutiscono e tossiscono proprio come gli esseri umani, disperdendo il patogeno nell’aria. In questo modo, avevano osservato come appena 4 alterazioni potevano portare il ceppo a trasmettersi anche tra mammiferi. “La ricerca dimostra come un numero relativamente ristretto di mutazioni negli amminoacidi sono sufficienti a trasformare il normale virus dell’H5N1 in un ceppo più pericoloso: avendo effetto su una proteina chiamata emoagglutinina, le modificazioni permettono al ceppo di passare da animale ad animale”, ha spiegato Kawaoka. “Naturalmente quello che noi abbiamo studiato è probabilmente solo uno dei diversi modi in cui questo può accadere, ecco perché è importante andare avanti nella ricerca, per capire quali altre alterazioni possono provocare lo stesso risultato”.
La proteina virale studiata, l’emoagglutina, si trova sulla superficie del virus e permette a questo di legarsi airecettori cellulari nei tessuti polmonari, diventando così un pericolo per la salute umana: alcune delle mutazioni studiate dal team sono infatti già state rilevate, anche se per ora solo singolarmente, in alcuni ceppi che circolano tra i polli in Egitto e nel Sud-Est Asiatico.
I virus dell’influenza hanno una grande capacità di mutare, tanto che possono facilmente scambiare geni con altri virus. Ma se la ‘giusta’ combinazione di mutazioni si dovesse verificare, secondo gli esperti con ricerche di questo genere potrebbe essere possibile rispondere tempestivamente. Oltre a dimostrarne la trasmissibilità, infatti, il team di Kawaoka ha anche sviluppato un modo per controllarne la diffusione, con delle contromisure che sono già disponibili, come ad esempio alcuni farmaci già usati in precedenza contro la pandemia del 2009.
Cosa ci aspetta in futuro, siamo al sicuro?
Chiaramente, gli scienziati non sono capaci di predire se e quando effettivamente queste mutazioni si verificheranno e il virus letale potrà cominiciare a circolare nel globo. “È difficile da prevedere – ha spiegato Kawaoka – ma sicuramente più il virus circola, più ci sono possibilità che questo muti, venendo a contatto con altri organismi”. Lo studio appena pubblicato, però, potrebbe aiutare proprio a riconoscere tempestivamente eventuali alterazioni nel ceppo e dunque migliorare le tecniche di sorveglianza.
Quello che possono cercare di assicurare, in più, è di non diffondere accidentalmente il virus nell’ambiente, dunque evitando di lavorare in laboratori che hanno bassi livelli di biosicurezza. Ma in ogni caso, assicurano gli scienziati, il ceppo sviluppato in laboratorio non è comunque altamente contagioso: il virus ibrido ottenuto a partire dall’H5N1, l’aviaria, è comunque meno patogeno dell’H1N1, quello della suina che generò l’ultima pandemia nel 2009. È solo una sorta di canovaccio su cui studiare le mutazioni più pericolose.
Solo una base di studio, dunque, ma che sta già elettrizzando buona parte della comunità accademica. “Dopo averlo aspettato per così tanto tempo, averlo tra le mani è una sensazione particolare, come quella che si prova quando si mangia dopo un lungo periodo di digiuno”, ha detto Vincent Racaniello in un
commento uscito su
Nature insieme alla ricerca. “E la cosa bella è che – una volta letto da cima a fondo – lo studio non delude”.
Laura Berardi