Ogni giorno portiamo il conto di nuovi casi di Covid-19, in Italia e nel mondo, del numero di casi gravi e di decessi. Proviamo invece a concentrarci per un attimo sulle persone che guariscono: sono quasi 300.000 in tutto il mondo, più di 24.000 in Italia, senza considerare tutti gli asintomatici e coloro che hanno manifestato sintomi così lievi che la malattia non è stata identificata.
Tutte queste persone hanno sviluppato un’immunità dopo essere stati a contatto con Sars-Cov-2. Il loro corpo, dopo alcune settimane dal primo contatto con il virus, ha prodotto delle immunoglobuline (degli anticorpi) in grado di riconoscerlo, quindi, la prossima volta, nel caso di un secondo attacco, il sistema immunitario sarà immediatamente in grado di mettere in atto una difesa adeguata.
E se questi anticorpi, oltre che proteggere le persone guarite, potessero anche essere usati come farmaco a supporto del sistema immunitario dei malati? La donazione di plasma contenente delle immunoglobuline contro un determinato patogeno non è una novità. La procedura si conosce da circa un secolo ed è stata messa in atto per far fronte a diverse malattie, tra cui l’ebola, la Sars e la Mers.
Oggi, questa terapia potrebbe rappresentare un’opzione per far fronte alla pandemia da Covid-19. Per ottenere un farmaco occorreranno ancora mesi, nel frattempo “migliaia e migliaia di persone continueranno ad infettarsi”, commenta
Alessandro Santin, professore alla Yale University School of Medicine.
Piccoli studi clinici condotti in Cina (uno su cinque pazienti, l’altro su 10) hanno mostrato che, anche nei casi di Covid-19, questa tecnica potrebbe essere efficace e sicura e portare a un miglioramento delle condizioni dei pazienti ricoverati in terapia intensiva. Naturalmente occorrono i risultati di studi controllati e su larga sala per valutare l’effettiva efficacia e sicurezza della plasmaferesi e non tarderanno ad arrivare. Proprio alcuni giorni fa l’Fda ha approvato uno studio che coinvolge un centinaio di ospedali negli Stati Uniti per permettere agli ex-pazienti di donare il sangue e ai nuovi pazienti di ricevere gli anticorpi. Il protocollo prevede che “la Croce Rossa contatti i soggetti che si sono rimessi dalla malattia”, spiega Santin, “e ne raccolga il plasma”.
Viene poi valutato il titolo anticorpale neutralizzante in esso contenuto, poiché le persone possono sviluppare più o meno anticorpi e per la terapia ne serve una certa quantità. “Vengono prelevati 400 mL da ogni donatore, bastano per trattare due pazienti”. La Croce Rossa invia poi i sacchetti di plasma da 200 mL ai diversi ospedali negli Stati Uniti.
In assenza di altri farmaci, con un vaccino che arriverà tra oltre un anno, questa, secondo Santin “è la migliore terapia che possiamo offrire in questo momento”.
Sarebbe immediatamente disponibile, con costi mantenuti e ci sono tutte le capacità per metterla in atto anche in Italia, è solo questione di organizzazione e centralizzazione.
Al policlinico San Matteo di Pavia è stato messo a punto un protocollo sperimentale e altri ospedali, in diverse regioni, sono pronti a partire con le sperimentazioni. “L’Italia ha moltissimi ospedali attrezzati per effettuare la plasmaferesi, che in sé è una procedura molto semplice”, commenta
Sergio Pecorelli, presidente della Fondazione Giovanni Lorenzini, “e i laboratori possono facilmente attrezzarsi per individuare la carica anticorpale”.
C.d.F