Nella parte del Mezzogiorno più cara ad Eduardo De Filippo c'è un modo di dire che è segnatamente significativo ma intraducibile: «fissìare».
Non equivale a scherzare, a prendere in giro, a trastullarsi, a fesseggiare. È molto di più. Rappresenta lo stato di chi, obbligato a fare cose importanti per sé e per gli altri, persino vitali, perde tempo, giocandosi così una chance decisiva per la collettività, e con questo l'occasione giusta per rimediare all'altrimenti disastro.
È quanto è accaduto sino ad oggi nell'Italia di giù, prevalentemente in Calabria, nell'affrontare il coronavirus, con una organizzazione sanitaria inadeguata e le condizioni infrastrutturali dedicate alla salute (che non c'è) che fanno paura solo a vederle rappresentate senza veli, così come avvenuto in alcune recenti trasmissioni televisive. E' quanto accaduto a cura di decine di migliaia di meridionali che, agendo di anticipo sui tardivi divieti ovvero in barba ad essi, hanno lasciato di notte fonda le regioni più colpite, soprattutto la Lombardia, per recarsi al sud, patria delle loro famiglie.
Al riguardo, per l'appunto, si è «fissìato», e troppo.
Ora basta!
La situazione reclama altro
Le esigenze non più trascurabili di prevenzione e di tutela della salute contro il coronavirus pretendono non solo un rinsavimento delle Regioni coinvolte ma anche un diverso approccio dei cittadini.
Urgono, pertanto, attività seriamente organizzative dei servizi sanitari regionali meridionali mirati a tutelare le rispettive popolazioni, prossime ad essere più aggredite dal virus, e un ottimismo shakerato con la migliore buona volontà, filtrato di quel peggiore egoismo che caratterizza solitamente le famiglie nel volere portare a casa più che si può, spesso più di quanto serva.
Occorre, quindi, mettere da parte i vecchi e i nuovi vizi, sociali e individuali, che distinguono le comunità, solitamente secondo il meridiano di appartenenza, e - in esse - i segmenti di popolazione più emancipati, in termini di occasioni disponibili, da quelli che non hanno alcuno cui rivolgersi.
In un evento come quello che il Paese sta vivendo, con valori negativi da contagio da primato nel mondo intero, le distinzioni contano (ahinoi!) più che mai e le depressioni accelerano la loro aggressione sui ceti più predisposti. Peseranno quindi tantissimo le distinzioni nord-sud così come quelle distinguono pezzi della società di oggi.
I brutti sintomi del malessere specifico
In questa triste vicenda sono emersi due fenomeni riprovevoli.
Il primo. La corsa all'accaparramento, soprattutto di chi è più benestante. Lo ha fatto nelle farmacie e simili a racimolare di tutto e di più. Lo ha fatto nei supermercati sopravvissuti all'assalto solo perché attenti agli stoccaggi. A tutto questo, si sono contrapposte le necessità insoddisfatte dei meno abbienti, prevalentemente i più anziani, quelli che si sogliono vedere, per esempio, nelle pescherie a comprare la merce ad etti e non a quintali. Un ceto sociale, questo, che è sempre più disarmato di assistenza sociale e abbandonato al loro destino, spesso molto amaro, fatto di un potere di acquisto quasi raso al suolo. Non solo. Si sono registrate speculazioni sui prodotti eletti a leader della protezione dal virus (mascherine, alcool e igienizzanti) venduti a prezzi da reato vero e proprio.
Il secondo. L'accelerazione della solitudine e della disperazione registrata in quella parte della popolazione degli anziani che costituisce la maggioranza demografica. Quelli, cui giustamente l'informazione non fa altro che ripetere essere i soggetti più a rischio di morire a causa del Covid-19, quasi a versare loro un acconto sul loro necrologio. Quelli costretti a fare i conti con loro stessi e con i pochi spiccioli da amministrare per vivere, cui spetta un maggiore contributo della società.
A fronte di una tale situazione, non propriamente bella e caratterizzante la popolazione nazionale, che registra percentuali quasi totalitarie al sud disertato dai giovani, con punte di «eccellenza» nei centri periferici abbandonati più che mai a loro stessi, esistono i limiti sociali imposti a tutti, anche ai più volenterosi e ai più generosi di affetto da dedicare a chi ne ha bisogno. Un bel problema insomma, del quale non solo tenere conto ma da affrontare con la dovuta concretezza.
La domanda è cosa fare, tenuto conto dei divieti imperanti?
Ben vengano le manifestazioni «festose patriottiche» che, con i lori applausi e le intonazioni canore, hanno regalato al Paese un qualche attimo di commozione e di sentimento unitario. Nel sud, e in particolare in Calabria, ha fatto anche di più. Ha prodotto lo stimolo giusto per «arrotolare le maniche della camicia». Un sentimento di unità, di altruismo, di fare qualcosa per il bene comune. Tutti.
Di conseguenza, dobbiamo (tutti) cominciare da subito a:
- stimolare energicamente le istituzioni perché facciamo ciò che devono;
- tifare e soprattutto sostenere medici e infermieri nel loro indefesso impegno, quello che fino ad oggi ha evitato l'affondamento della sanità, cui la politica di quasi tutto il Mezzogiorno ha sparato per decenni con i cannoni dell'incapacità, dell'inefficienza, dell'ignoranza e del menefreghismo;
- manifestare la nostra riconoscenza e a stare vicino a chi garantisce con la loro presenza, spesso senza i presidi di tutela personale che ci vorrebbero, l'assistenza farmaceutica, l'approvvigionamento alimentare e la sorveglianza: un grazie quindi ai farmacisti, ai commessi dei supermercati e alle forze dell'ordine;
- rappresentare un sentito ringraziamento agli erogatori accreditati privati operanti nella sanità, nel socio-sanitario e nel socio-assistenziale che hanno offerto disinteressatamente più di quanto nelle loro disponibilità,
- offrire aiuto ai nostri vicini di casa, specie se anziani, per assicurare loro che non rimangano senza ciò che necessita loro per sopravvivere.
Un atto di altruismo, questo, che ben si sposa con quello più egoistico di rimanere a casa!
Ettore Jorio
Università della Calabria