L’infettività e la mortalità di COVID-19 non sono poi così elevate. Ciò che preoccupa è che si tratta di un virus nuovo, per cui non abbiamo gli anticorpi. Per questo la gestione concreta da un punto di vista sociale dell’infezione potrebbe risultare problematica. È questa la sintesi di
Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università di Milano, che ci spiega qual è l’effettiva pericolosità del nuovo coronavirus.
Qual è l’effettiva pericolosità di COVID-19 per la popolazione e cosa distingue questa infezione da altre malattie respiratorie?
La malattia provocata dal nuovo coronavirus, rispetto ad altre, è banale e non è contagiosissima, come possono esserlo, ad esempio, il morbillo o la varicella, ma è piuttosto comparabile all’influenza. L’infezione, nella maggior parte dei casi, colpisce le vie aeree superiori, come le altre malattie respiratorie. È però più propensa delle altre a evidenziare delle polmoniti virali primarie, che coinvolgono quindi gli alveoli, la parte più profonda dell’apparato respiratorio, e portano spesso a casi gravi. Quest’anno per esempio, almeno finora, si sono verificati 5 milioni di casi di influenza e tra questi i pazienti con polmonite virale primaria sono stati 200, di cui 23 morti.
Gli studi attualmente disponibili stimano, per l’infezione da coronavirus, una mortalità del 2,3%. Cosa indica questo dato? È una stima affidabile?
Naturalmente i dati sulla mortalità e il numero di casi gravi che abbiamo a disposizione sono una sovrastima, poiché mancano informazioni certe sul denominatore, il numero totale di persone colpite dalla malattia. Lo vediamo bene nella casistica italiana, in cui sono stati eseguiti maggiori controlli sui soggetti potenzialmente a rischio e sono stati scoperti moltissimi casi asintomatici. I dati disponibili al momento si riferiscono esclusivamente ai casi diagnosticati, con una clinica evidente.
COVID-19, proprio come l’influenza, ha un impatto più importante nelle persone affette da malattie cardiache o respiratorie. Per questo bisognerebbe valutare, nei diversi casi, come per i sette morti in Italia, se il coronavirus è una concausa oppure l’elemento scatenante che ha provocato l’exitus in persone fragili.
Se la malattia non è poi così grave, perché vengono adottati ogni giorno nuovi provvedimenti di sanità pubblica per limitare il contagio?
La ragione per cui le istituzioni hanno adottato dei provvedimenti di sanità pubblica è che si tratta di un virus nuovo, per cui nessuno di noi ha gli anticorpi. Quindi lo scenario è quello della spagnola del 1918. La malattia non è grave ed è poco contagiosa, ma se si lasciassero le cose come sono, senza prendere provvedimenti, ci ritroveremmo in una situazione in cui in 6/8 settimane il 35-40% della popolazione sarebbe contagiato. E questo crea di per sé dei problemi, le persone restano a casa e, ad esempio, non lavorano. La pericolosità è di una malattia a basso rischio specifico, ma con un’elevata sommatoria di danni più o meno rilevanti sui singoli, che poi determina un effetto di sanità pubblica rilevante. La preoccupazione delle istituzioni, nazionali e sovranazionali, verso questa malattia, diciamo, non cattivissima, è quindi giustificata. È però importante far percepire al cittadino il senso di queste misure, senza banalizzarle né cedere all’agitazione.
Sono misure efficaci per ridurre il contagio?
Le scelte su quanto aumentare la distanza sociale vanno prese in funzione di un equilibrio realistico e di fattibilità, sapendo che qualsiasi disposizione che si dà, non ha un'efficacia al 100%, ma permette magari la riduzione della trasmissibilità del 50, 60% e in questo modo si riduce quella possibilità di contagio tra le persone.
Camilla de Fazio