Qual è lo stato della ricerca clinica in Italia, in termini di finanziamenti, regolamenti, collaborazioni tra pubblico e privato? Il libro Il valore della ricerca clinica indipendente in Italia cerca proprio di rispondere a questa domanda, in un contesto internazionale sempre più competitivo che vede l’Italia in ritardo rispetto agli altri Paesi dell’Unione Europea.
Il testo è frutto della collaborazione tra la fondazione Fadoi e la fondazione Roche ed è stato presentato per la prima volta il 7 novembre al Nobile Collegio Chimico Farmaceutico di Roma.
Il ritardo italiano è dovuto in gran parte alla questione dei finanziamenti. Se da un lato, come viene sottolineato nel libro, i Governi investono poco più della metà degli altri Paesi europei in ricerca clinica, è vero anche, ed è forse una conseguenza della mancanza di investimenti pubblici, che “il sistema di ricerca italiano non è oggetto di interesse privilegiato da parte degli sponsor privati”.
Eppure la ricerca rappresenta un vero e proprio investimento per gli Stati, come ha sottolineato
Claudio Jommi, professore all’Università Bocconi di Milano, che ha spiegato come, per ogni euro investito nella ricerca se ne guadagnino 2,2. Un guadagno che deriva anche dal semplice fatto che i pazienti che partecipano ad un trial clinico possono beneficiare di un farmaco che costerebbe molto ma non viene contabilizzato.
In uno studio condotto insieme ai colleghi del Cergas Sda Bocconi School of Management, presente nel libro, Jommi ha osservato che, in media, tra il 2014 e il 2018, il finanziamento delle imprese alla ricerca clinica corrisponde a circa il 92% degli investimenti complessivi. Il finanziamento pubblico invece pesa circa per il 4%. “Visto che la ricerca clinica è finanziata al 90% dalle imprese, è importante non perdere questo investimento”, ha sottolineato Jommi. Cosa che, invece, sta avvenendo.
Beatrice Lorenzin, ex ministro della Salute presente al dibattito, ha ricordato che, con la Brexit, la Gran Bretagna perde circa 30 miliardi di investimenti nella ricerca. “Dovremmo cercare di indirizzarli verso l’Italia”, ha commentato Lorenzin, e invece saranno diretti ad altri Paesi come l’Olanda e la Spagna. Un altro dato che mostra come le aziende scelgano di finanziare altri Paesi Europei: quattro anni fa, Roche investiva il 25% delle risorse destinate all’Europa in Italia, un altro 25% era destinato alla Spagna. Adesso gli investimenti verso la Spagna rappresentano il 50% del totale, quelli verso l’Italia sono rimasti al 25%.
Cosa fare? Sicuramente bisogna aumentare l’entità e la regolarità degli investimenti pubblici nella ricerca clinica indipendente, che, come scrivono gli autori, è complementare alla ricerca industriale. È infatti grazie alla ricerca indipendente che è possibile comprendere, ad esempio, i limiti e gli effetti collaterali dei trattamenti e accelerare lo sviluppo della medicina di precisione. “Monitorare l’interazione tra pubblico e privato e creare un sistema di fiducia reciproca consentirebbe coinvestimenti e una condivisione delle risorse”, ha suggerito
Ennio Tasciotti, Professore al Methodist Hospital Research Institute di Houston in Texas.
Bisogna poi prendere in considerazione il fatto che la ricerca clinica e la pratica medica sono profondamente intrecciate, come ha sottolineato
Roberto Labianca, Direttore del Cancer Center e del Dipartimento Provinciale di Oncologia all’Ospedale Papa Giovanni XXII di Bergamo. E infatti, ha ricordato che “si cura meglio dove si fa ricerca”. La collaborazione tra mondo universitario e ospedaliero consente una verifica costante dell’efficacia di ciò che la ricerca produce e permette, a partire dalle esigenze del paziente, di dare il via a nuove ricerche.
È fondamentale inoltre, secondo gli autori, rivedere il Decreto Legislativo 14 maggio 2019 che affronta la questione del conflitto di interessi in maniera molto restrittiva e “rischia di compromettere la competitività del sistema della ricerca clinica italiano”.
A questo proposito
Carlo Petrini, Direttore dell’Unità di Bioetica dell’Istituto Superiore della Sanità, ricorda il titolo di un articolo pubblicato da Jama Oncology: “No conflict no interest” e commenta che nella ricerca biomedica “può essere esente da conflitti solo chi non ha collaborazioni in atto, e chi non ha collaborazioni difficilmente è un esperto”. Inoltre gli autori mettono in evidenza come, piuttosto che di conflitto di interessi, bisognerebbe parlare di trasparenza (traduzione dell’inglese disclosure). Un ricercatore, un medico, deve dichiarare con chi lavora, in modo tale che chi legge il suo articolo o ascolta la sua presentazione può valutare in modo critico ciò che legge o ascolta, ha spiegato Labianca. Se i conflitti di interesse sono dichiarati e manifesti possono essere gestiti.
Camilla De Fazio