Ogni anno tra il 5 e l’7% dei pazienti contrae un’infezione durante un ricovero ospedaliero. Una situazione aggravata dalla proliferazione dalla cd. multiresistenza. Secondo i dati del Centro Europeo per il Controllo delle Malattie (Ecdc- al 2015) il fenomeno ha causato 33 mila morti in Europa e circa 10mila in Italia. Ma quello delle infezioni ospedaliere è un rischio che non può essere eliminato. Può essere abbattuto, entro un certo limite. Ma mai sconfitto definitivamente. Per questo
Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie infettive dell’Azienda Sanitaria Universitaria Integrata di Udine, che è anche Direttore della Scuola di Specializzazione in Malattie Infettive e Tropicali dell’Università di Udine, sottolinea la necessità di un nuovo approccio che, anche con l’aiuto della giurisprudenza e dei media, renda le persone consapevoli di questa realtà.
Prof. Bassetti, qual è l’incidenza delle infezioni correlate all’assistenza?
Secondo i dati epidemiologici ogni anno tra il 5 e l’7% dei pazienti contrae un’infezione durante un ricovero ospedaliero, con punte, tra le varie realtà che oscillano dal 3% al 7% ed un gradiente Nord- Sud rilevante, a scapito delle regioni meridionali. In alcune realtà si sfiora il 10/15% di infezioni correlate all’assistenza, complessivamente dentro ciascuna struttura sanitaria. Il fenomeno delle infezioni nosocomiali è aggravato dalla proliferazione dalla cd. multiresistenza, ovvero l’abilità dei batteri, di resistere all’azione dei medicinali antimicrobici (antibiotici). Sul problema delle MDR (multiresistenze) l’Italia insieme alla Grecia detiene un triste primato. Secondo i dati del Centro Europeo per il Controllo delle Malattie (Ecdc- al 2015) il fenomeno ha registrato quasi 679mila casi nell'Unione europea, di cui oltre 201mila nel nostro Paese, causando 33 mila morti in Europa e circa 10mila in Italia.
Lei propone una modifica all’attuale modello di “consenso informato” perché?
Perché su questa questione urge un giro di boa che riporti l’asse della problematica dentro un approccio realistico, superando un ragionamento sbagliato, che oggi determina moltissime cause giudiziarie temerarie. Anche per la mia esperienza di consulente tecnico d’ufficio, in diversi procedimenti giudiziari, mi sono trovato a constatare che i sanitari avevano fatto di tutto per evitare che il paziente contraesse un’infezione: in tal caso trovo inappropriato parlare di risarcimento, ma semmai bisognerebbe ragionare in termini di indennizzo. Il consenso informato rappresenta un valido strumento a mio avviso per spiegare ai pazienti, ma anche agli avvocati, che durante una degenza, o un intervento, il rischio di contrarre un’infezione è insopprimibile, almeno dentro una certa soglia.
Dunque, va sdoganato un nuovo approccio culturale, in grado di alzare la consapevolezza sul punto?
Sì. Bisogna introdurre tale informazione nel consenso informato, come già accade per altre procedure ospedaliere, per far capire ai pazienti che se loro sono fragili - così, ad esempio i bambini al di sotto dell’anno di vita e gli anziani oltre i 65 anni, o coloro che hanno una condizione di immunocompromissione a causa di interventi chirurgici, terapie immunosoppressive, o perché hanno più comorbilità - già per questo si trovano in una condizione di vulnerabilità tale che, il rischio di contrarre un’infezione è inevitabile e non dipende, pertanto, dalla colpa del medico o della struttura sanitaria.
Un obiettivo dunque che deve vedere una sinergia tra scienza e giurisprudenza, dunque?
Esatto, ma che coinvolge anche i media che hanno un importante ruolo volto a divulgare le informazioni alla popolazione, perché il sistema sanitario non può sperperare risorse umane ed economiche per un obiettivo che in natura non è in partenza raggiungibile, ovvero azzerare i rischi di infezione correlata all’assistenza e serve sfatare alcune fesserie: il lavaggio delle mani per capirci è importante così come l’igiene degli ambienti, ma non per questo tali procedure di profilassi azzerano il rischio di contrarre infezioni in presenza di uno stato clinico complessivo che causa un abbassamento delle difese immunitarie. Se non diciamo queste cose in modo chiaro generiamo nei pazienti false aspettative e diranno che si sono infettati perché l’ospedale è sporco e disorganizzato.
Quando possiamo iniziare a parlare di cattivo funzionamento della struttura?
Se in una struttura ospedaliera si registra fino al 6% di infezioni, quello è un rischio che deve considerarsi accettabile, ma se arriva al 10 - 15%, siamo in presenza di un centro che va certamente chiuso, perché in quel caso evidentemente c’è una responsabilità, non solo medica, ma anche organizzativa della struttura. Inoltre, va ricordato che non tutte le infezioni che si registrano durante il ricovero sono state contratte in ospedale: c’è una quota extraospedaliera, ovvero che riguarda persone che non hanno mai avuto prima contatti con l’ospedale. Ad esempio (15% ) per gli enterobatteri. Così le infezioni ESBL (ceppi batterici produttori di beta-lattamasi a spettro esteso, ovvero enzimi che conferiscono resistenza ai beta-lattamici - Penicilline ) di cui negli ultimi anni è aumentata la diffusione, registrando significativi valori extraospedalieri.
L’utilizzo di nuove molecole, ovvero di antibiotici più innovativi e, perciò, a più alto costo, può risultare più efficace per il contrasto delle MDR (multiresistenze), però, spesso, il loro impiego è frenato dalla politica sanitaria per la necessità di contrarre la spesa…
Il tema dei costi non può e non deve limitare la prescrizione dei nuovi antibiotici. Se occorre spendere di più per applicare antibiotici che offrono maggiori possibilità terapeutiche, bisogna consentirne l’uso senza restrizioni, attraverso il filtro degli infettivologi e dei CIO (Comitati Infezioni Ospedaliere), così come è stato fatto in altre circostanze: si pensi ai farmaci oncologici. In tal caso il più alto esborso iniziale verrà ammortizzato nel tempo risparmiando i costi legati a decessi e invalidità. Dobbiamo smettere di discutere del paradosso: se usarne di meno o di più e ragionare in termini di appropriatezza, cioè valutare se si usano bene, altrimenti torneremo indietro di 50 anni, ovvero in epoca pre-antibiotica.
Maria Grazia Elfio