Capire se un paziente è in stato vegetativo oppure se ha ancora un livello minimo di coscienza è una sfida molto complicata per i medici. Nel 40% dei casi si sbaglia, visto che l’unico modo per comprendere se un paziente è veramente cosciente è valutare la capacità della persona di comunicare con l’ambiente esterno. Da oggi, grazie ad una
ricerca pubblicata sulla rivista
Brain e condotta dall’Università di Milano, la diagnosi sarà più facile, usando la stimolazione magnetica transcranica insieme ad un elettroencefalogramma.
Nel caso in cui sopravvivano ad una grave lesione cerebrale, alcuni pazienti riprendono coscienza senza recuperare la capacità di muoversi e comunicare, e talvolta nemmeno di comprendere quello che hanno intorno. Ma come si fa a distinguere questi pazienti da quelli in stato vegetativo?
Esistono infatti dei casi in cui l’esperienza cosciente è generata interamente all’interno del cervello, ma non direttamente desumibile alla sola osservazione. L’esempio più semplice è quello del sogno. Grazie ad un nuovo metodo, in cui viene combinata la stimolazione magnetica transcranica (TMS) con l’elettroencefalogramma (EEG), secondo gli scienziati è possibile riconoscere questi stati, anche quando i pazienti sono incapaci di rispondere agli stimoli esterni. Per sviluppare questa tecnica i ricercatori italiani si sono avvalsi della collaborazione di un team del Coma Science Group dell’Università di Liegi.
I ricercatori hanno testato il metodo su 17 pazienti gravemente cerebrolesi che hanno mostrato un’evoluzione dal coma verso altri stati clinici. “La TMS/EEG permette di misurare direttamente e in maniera non invasiva la comunicazione interna al cervello, una condizione che per le neuroscienze teoriche è necessaria affinché possa emergere la coscienza”, ha commentato
Mario Rosanova, primo autore dello studio. “Ricerche precedenti avevano dimostrato che l’approccio basato sulla TMS/EEG permette di distinguere gli stati in cui la coscienza è presente (veglia attenta, sogno) e gli stati in cui la coscienza è ridotta o assente (sonno profondo, anestesia)”.
In particolare infatti, ha spiegato Rosanova a Quotidiano Sanità, la tecnica permette non solo di discriminare tra i diversi stati di coscienza, ma soprattutto di monitorare il passaggio da uno stato all’altro. “Abbiamo misurato il correlato neurofisiologico del recupero della coscienza, ovvero il dialogo tra le aree corticali, riuscendo in alcuni casi a seguire il passaggio da uno stato vegetativo ad uno di minima coscienza, o addirittura a quello di recupero totale”.
Nei pazienti in stato vegetativo, infatti, la TMS/EEG mostra l’assenza di comunicazione tra le aree corticali – come precedentemente osservato nel sonno profondo o nell’anestesia – anche se dal punto di vista comportamentale questi appaiono svegli e con gli occhi aperti. Al contrario, nei pazienti che mostrano minimi segni di coscienza, la TMS ha rilevato che la comunicazione tra le aree corticali è ancora correttamente funzionante, anche a prescindere dalle capacità del paziente di comunicare con l’ambiente esterno.
“È importante sottolineare – hanno fatto sapere i ricercatori – che tale metodo può essere applicato al letto del paziente, e non richiede né l’integrità delle vie di senso e motorie né la capacità del soggetto di comprendere o eseguire dei comandi”.
Marcello Massimini, docente dell’Università di Milano che ha coordinato il lavoro, ha commentato così la pubblicazione della ricerca: “I risultati di questo lavoro suggeriscono che “interrogando” direttamente il cervello (con la TMS) per stimare la sua capacità di dialogo interno (con l’EEG), si possono monitorare in maniera efficace i correlati neurali del recupero di coscienza nei pazienti gravemente cerebrolesi e incapaci di comunicare”.
I ricercatori hanno oggi già chiaro quali potranno essere i prossimi step in questo ambito ricerca. “La prima cosa che cercheremo di fare è di incrementare il numero di pazienti sui quali testare il metodo”, ha spiegato ancora Rosanova. “In più presto inizieremo una collaborazione sia con il Don Gnocchi di Milano che con la struttura di Neurorianimazione diretta da
Claudio Betto all’Ospedale di Niguarda. Nel primo caso amplieremo le nostre osservazioni sui pazienti cronici mentre con il team del professor Betto metteremo in piedi uno studio sui pazienti acuti, con la speranza di riuscire a ricavare degli indici prognostici da usare nella pratica clinica”.
Laura Berardi