Predire la comparsa dei sintomi dell’Alzheimer ad oggi è impossibile. Ma cosa succederebbe se per stabilire un rischio maggiore per la comparsa di questa patologia bastasse misurare le dimensioni del cervello dei pazienti? Secondo ricercatori del Massachussetts General Hospital e dell’Università della Pennsylvania questo è proprio quello che faranno ben presto i neurologi. Il team, supportato dal National Institute on Aging di Baltimora, ha infatti pubblicato sulla rivista Neurology una
ricerca che indica che le dimensioni ridotte di alcune zone del cervello sono associate ad un quinto di rischio in più di sviluppare la malattia neurodegenerativa.
Per dimostrare la corrispondenza tra la grandezza di queste parti del cervello e lo sviluppo di sintomi dell’Alzheimer, i ricercatori hanno analizzato le risonanze magnetiche del cranio di 159 persone di età media di 74 anni che non presentavano segni di demenza senile. “La capacità di identificare le persone che sono a rischio di declino cognitivo pur non mostrando ancora problemi di memoria o altri sintomi è un passo importante per la cura dell’Alzheimer”, ha spiegato
Susan Resnick, ricercatrice che ha contribuito allo studio.
Le zone da controllare erano state scelte dai ricercatori in base a studi precedenti, che dimostravano come queste avessero dimensioni ridotte nei pazienti malati di Alzheimer. In base ai risultati delle risonanze magnetiche, tutte le persone coinvolte nello studio sono state divise in tre gruppi: 19 erano state classificate ad alto rischio per lo sviluppo della patologia, 116 a rischio medio e 24 a basso rischio. Sia all’inizio che alla fine dello studio e per i successivi tre anni queste persone sono state sottoposte a test di memoria, attenzione, risoluzione di problemi ed è stata controllata la loro capacità di pianificare azioni.
I risultati trovati dai ricercatori sono stati proprio quelli attesi. I pazienti inclusi nel gruppo ad alto rischio sono stati quelli in cui i sintomi di declino cognitivo sono stati più evidenti: il 21% è andato incontro a demenza nei tre anni di follow-up previsti dallo studio, contro il 7% di quelli del gruppo di rischio medio. Ulteriore conferma della teoria è arrivata dal gruppo a basso rischio, dove nessuno dei pazienti ha mostrato problemi di memoria o deficit di attenzione. Inoltre, i pazienti del primo gruppo presentavano nel 60% dei casi livelli anormali nel fluido cerebrospinale di proteine associate allo sviluppo della malattia, che rappresentano un marker per l’Alzheimer. Nel secondo e terzo gruppo l’anomalia era presente rispettivamente nel 36% e nel 19% dei casi.
Gli scienziati già pianificano ulteriori analisi sull’argomento. “Ricerche di questo tipo devono essere al più presto associate ad altri tipi di test”, ha spiegato
Bradford Dickerson, ricercatore al Massachussets General Hospital e primo autore dello studio. “Solo in questo modo potremo arrivare a predire con maggiore sicurezza coloro che sono ad alto rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer”.
Laura Berardi