La malattia di Parkinson è un disturbo neurodegenerativo che porta alla perdita dei neuroni della cosiddetta substanzia nigra, formazione nervosa nella quale viene prodotta la dopamina. L’eziologia della perdita di queste cellule non è chiara, ma si sa che riguarda una funzionalità anormale dei mitocondri. Ma ristabilire il corretto funzionamento di questi centri di produzione di energia potrebbe proteggere dallo sviluppo del morbo, secondo uno
studio effettuato su modello murino dai ricercatori dell’Università di Cambridge, appena pubblicato sulla rivista
Journal of Experimental Medicine.
La secrezione di dopamina facilita il movimento, dunque la perdita di gruppi cellulari attraverso i quali viene prodotto questo neurotrasmettitore innesca una riduzione della mobilità, rigidità, tremore. Ovvero i sintomi della malattia di Parkinson, che colpisce in Italia circa 150.000 persone, più altri 50.000 pazienti affetti dai cosiddetti parkinsonismi, altri quadri clinici che somigliano alla malattia. Le persone affette sono per lo più maschi e in quasi tutti i casi le patologie si sviluppano attorno ai 60 anni, ma l’età d’esordio del Parkinson si sta facendo sempre più bassa.
Questa perdita di neuroni dopaminergici, e quindi lo sviluppo della malattia, sembrano dipendere da un danno all’interno dei mitocondri, centri di produzione di energia dentro le cellule. Sfruttando il fatto che spesso alcuni virus ristabilizzano la funzione dei mitocondri per assicurare la sopravvivenza delle unità biologiche che infettano, il team di ricerca inglese ha provato ad infettare alcuni topi affetti da un morbo simile a quello di Parkinson con una proteina virale, chiamata
beta 2.7. Questa proteina è infatti conosciuta per essere una di quelle che proteggono i mitocondri, ma i ricercatori sono in grado di farla diventare innocua per gli esseri viventi.
Le cavie sottoposte a questa procedura, a prescindere che questa venisse applicata prima o dopo la comparsa di lesioni a livello cerebrale, ottenevano risultati migliori sui test di movimento o di comportamento. Inoltre, i loro cervelli contenevano un numero maggiore di neuroni dopaminergici.
Chiaramente i ricercatori precisano di aver bisogno di altre conferme prima di essere sicuri che l’approccio possa funzionare anche sugli esseri umani. “Il nostro metodo potenzialmente potrebbe avere grandi ripercussioni sul trattamento del Parkinson”, scrivono nello studio. “Anche perché – precisano – l’agente appena scoperto potrebbe avere lo stesso effetto protettivo non solo sui neuroni dopaminergici presenti nella substanzia nigra, ma anche in tutti gli altri neuroni danneggiati anche solo parzialmente”.
Laura Berardi