La steatosi epatica è una condizione frequente soprattutto nelle persone obese e può rappresentare la premessa alla cosiddetta NAFLD (
non-alcoholic fatty liver disease).
Lo studio FLORINASH, pubblicato questa settimana su
Nature Medicine, è andato a valutare se alcuni metaboliti del microbioma intestinale possano avere la valenza di marcatori precoci di danno epatico, rilevabili attraverso un semplice esame del sangue.
L’epidemia di NAFLD e le sue conseguenze
Lo studio, realizzato da ricercatori dell’
Imperial College di Londra, insieme all’Università Tor Vergata di Roma, l’Università di Girona e l’INSERM di Tolosa è andato a valutare i rapporti tra microbioma intestinale e i vari stadi della NAFLD, condizione che inizia con un accumulo di grassi nel fegato, ma che può evolvere fino alla cirrosi e alle complicanze ad essa correlate (insufficienza epatica e cancro).
Si stima, anche vista l’attuale pandemia di obesità, che un adulto su 3 presenti una NAFLD ai primi stadi. Si tratta di una condizione subdola che non dà segno di sé fino alle fasi avanzate, quando un’ecografia epatica e gli esami del sangue ne rivelano la presenza.
Non esistono invece al momento test in grado di rivelare la presenza di NAFLD nelle prime fasi.
Il PAA: un biomarcatore putativo dei primi stadi della NAFLD
Gli autori dello studio hanno evidenziato che i livelli ematici di acido fenil-acetico (PAA), una sostanza prodotta dal microbioma intestinale, correlano con i primi stadi della NAFLD. Il PAA potrebbe dunque essere utilizzato in clinica come biomarcatore precoce di questa condizione, per screenare i pazienti a rischio con un semplice esame del sangue.
Gli autori dello studio sono arrivati a queste conclusioni analizzando vari campioni biologici (sangue, urine, biopsie epatiche, campioni fecali) di due coorti di donne con obesità patologica e fegato grasso, confrontandone i risultati con quelli di pazienti in buona salute, al fine di apprezzare le eventuali differenze tra i due set di campioni.
Da questo confronto è emersa appunto la differenza nei livelli di PAA; in particolare, elevati livelli di PAA correlavano con la presenza di steatosi epatica.
Un microbioma con scarsa variabilità batterica correla con le malattie metaboliche
Dalle analisi condotte sono emerse anche sottili alterazioni nella composizione del microbioma nelle donne con steatosi epatica; più lo stadio della malattia è avanzato, più omogenea diventa la composizione del microbioma intestinale (si riduce cioè la varietà dei batteri che lo compongono).
Questo ‘collasso’ nella varietà dei batteri del microbioma sembra essere, come già dimostrato da altri studi in precedenza, un marcatore di disordini metabolici, come l’obesità, la resistenza insulinica, la steatoepatite. “Il collasso nella diversità genica dei batteri intestinali – commenta
Marc-Emmanuel Dumas, autore senior dello studio – osservato nei disordini metabolici è molto preoccupante. I nostri batteri intestinali sembrano perdere la capacità di produrre sostanze benefiche e iniziano a produrre prodotti che ci mettono sulla strada delle patologie”.
PAA da biomarcatore a causa di malattia?
E la prova che il PAA non sia solo uno spettatore innocente è venuta poi da ulteriori esperimenti. Somministrando a topi in buona salute il PAA si induce l’accumulo di grasso nel fegato degli animali. Allo stesso modo, sottoponendo dei topi
germ-free a trapianto fecale con materiale prelevato da una persona con steatosi epatica, si provoca la comparsa di fegato grasso.
L’alterazione della composizione del microbioma intestinale insomma sembra giocare un ruolo non secondario nel determinismo di questa condizione.
“La letteratura scientifica – commenta
Lesley Hoyles dell’
Imperial College di Londra – dimostra che la composizione del microbioma si modifica in una serie di patologie; non sappiamo però ancora se venga prima l’uovo o la gallina e quindi non possiamo ancora parlare di relazione causa-effetto. Di certo però il microbioma qualche influenza sulla nostra salute lo dovrà pure avere, visto che abbiamo in circolo almeno 200 sostanze prodotte dai batteri intestinali”.
Microbioma e disturbi metabolici: una relazione pericolosa
“Il ruolo del microbioma intestinale nei disturbi metabolici è molto importante – afferma il professor
Massimo Federici dell’Università di Roma ‘Tor Vergata’ – Questo studio è riuscito a dimostrare un legame tra una scarsa variabilità della composizione del microbioma e la steatosi epatica. Il nostro prossimo obiettivo è di applicare queste scoperte alla pratica clinica per prevenire l’inizio delle complicanze a lungo termine dell’obesità.”
I take home message dello studio
L’idea di poter utilizzare dei segnali chimici prodotti dal microbioma per individuare una malattia in stadio precoce è insomma molto intrigante. Se questi risultati fossero confermati sarà possibile un giorno screenare i soggetti a rischio NAFLD con un semplice esame del sangue. E non solo. Manipolando la composizione dei batteri intestinali si potrà forse riuscire a prevenire la steatosi epatica e le complicanze cardio-metaboliche ad essa legate. Questi risultati aprono dunque nuove prospettive di intervento farmacologico e nutrizionale per contrastare l’epidemia di NAFLD.
Maria Rita Montebelli