Sdraiati su un lettino si viene inseriti in un enorme anello metallico, all’interno del quale bisogna stare perfettamente immobili. Poi viene attivato un magnete ed è proprio osservando la risposta degli atomi al campo che è possibile ottenere un’immagine bidimensionale dell’interno del corpo, in cui riconoscere tessuti diversi, distinguere gli organi malati da quelli sani. Questo è il principio di funzionamento della risonanza magnetica (MRI), il macchinario produce una foto del nostro organismo senza cambiarne le caratteristiche. O almeno questo è quello che si pensava prima che un gruppo di scienziati della Tehran University of Medical Sciences in Iran scoprisse che l’MRI può forse curare la depressione.
Lo
studio, pubblicato sulla rivista
Brain Imaging and Behaviour, parla chiaro: i pazienti affetti da forte depressione che si sottopongono a risonanza magnetica vedono poi migliorare la loro condizione patologica di percentuali che oscillano tra il 35 e il 40%. La ricerca ha infatti coinvolto 51 volontari con forti disturbi psichiatrici, tutti trattati con un particolare antidepressivo, della classe SSRI (selective serotonin reuptake inhibitors). Tutti i pazienti sono stati divisi in tre gruppi: i primi due si sono visti sottoporre a due diversi tipi di MRI; l’ultimo ha ricevuto un finto trattamento, per il quale venivano inseriti nel macchinario e veniva simulato il rumore prodotto dall’apparecchio, ma il magnete non veniva mai acceso.
A due settimane da questo procedimento, il risultato sorprendente. I volontari dei primi due gruppi presentavano depressioni migliorate del 35-40% che prima della risonanza magnetica. Per escludere che questo miglioramento fosse dovuto semplicemente all’effetto placebo, i ricercatori hanno dunque esaminato i pazienti del gruppo di controllo: anche questi presentavano qualche miglioramento (tra il 15 e il 19%) – dovuto appunto alla semplice convinzione di essere stati curati – ma comunque non ai livelli dei primi due gruppi.
Dunque abbiamo trovato un nuovo antidepressivo? Molti scienziati sono ancora scettici, ma i ricercatori hanno già spiegato in che modo l’MRI potrebbe aiutare questi pazienti. Le correnti elettriche che gli strumenti della risonanza magnetica producono nel cervello sono troppo leggeri per provocare effetti sull’organo, e in particolare sul comportamento degli assoni, che sono le lunghi filamenti che collegano i neuroni e permettono la circolazione dei messaggi. Ma questi campi elettrici indotti dal macchinario potrebbero essere sufficienti a sincronizzare i segnali dei dendridi, fibre minori comunque coinvolte nel trasporto del segnale nervoso alle cellule vicine. Questa idea deriverebbe dal fatto che un’attività elettrica “fuori sincro” sembra essere collegata a molti disordini del cervello.
Lo studio è solo il primo ad investigare questo tipo di effetti della risonanza magnetica negli uomini, visto che prima di oggi gli unici esperimenti erano stati condotti su animali. I ricercatori sono dunque convinti che bisogna riprodurre l’esperimento con un campione più ampio di pazienti, per escludere del tutto che il risultato possa essere un semplice frutto del caso.
Laura Berardi