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QS Edizioni - sabato 23 novembre 2024

Scienza e Farmaci

Malattie cardiovascolari. Siglato primo documento di “Consenso e raccomandazioni pratiche di prevenzione cardiovascolare”

immagine 9 marzo - Il documento ha visto la collaborazione di 10 tra società scientifiche ed enti di ricerca: Siprec, Simi, Sid, Siia, Sisa, Sif, Cnr, Fmsi, Gicr-Iacpr, Siti. Una call to action per una lotta a tutto tondo contro queste patologie,principale causa di morte nel mondo occidentale. Prevenzione con i consigli di una task force coordinata da Massimo Volpe, presidente Siprec, che ha stilato raccomandazioni su misura per gli italiani, disegnando una roadmap che coinvolge anche la politica italiana ed europea.
Le società scientifiche italiane scendono in campo compatte contro le malattie cardiovascolari e mettono a punto un documento intersocietario, che rappresenta una call to action per una lotta a tutto tondo contro queste patologie,principale causa di morte nel mondo occidentale. Prevenzione a tutto campo dunque, con i consigli di una task force di esperti italiani, che hanno stilato raccomandazioni di prevenzione ritagliate su misura per gli italiani, disegnando al contempo una roadmap che mira a coinvolgere nel dialogo sulla prevenzione anche la politica italiana ed europea.
 
L’obiettivo è quello di abbattere l’incidenza delle malattie cardiovascolari e di regalare agli italiani non solo anni di vita in più, ma anni da godere in salute. Di seguito gli interventi dei presidenti delle società scientifiche che hanno redatto il ‘Documento di consenso’ alla tavola rotonda di presentazione nel corso del 16° congresso Siprec a Napoli.
 
Perché un documento italiano sulla prevenzione cardiovascolare a tutto tondo? A spiegarlo è Massimo Volpe, presidente della Società Italiana per la Prevenzione Cardiovascolare (Siprec): "Soprattutto perché i documenti internazionali di linee-guida sono difficilmente traslabili a realtà di singoli paesi per le differenze etniche, demografiche, socio-culturali,di stili di vita, abitudini alimentari, organizzazione dei sistemi sanitari, accesso ai farmaci, e così via. Poi perché i numeri raccontano la storia di un disastro in termini epidemiologici. Le malattie cardiovascolari sono la prima causa di morbidità, ospedalizzazioni e mortalità nel nostro Paese. E per motivi demografici (invecchiamento della popolazione) il trend è in aumento.
 
C'è ancora scarsa cultura della prevenzione a livello della nostra società. E non solo. Anche il mondo della sanità è focalizzato soprattutto sulle cure. Si spende troppo poco in prevenzione, che non significa solo attenzione a tavola e una camminata, che fanno senz'altro bene, ma anche, ove necessario, la somministrazione di farmaci efficaci e sicuri. L'emergenza sostenibilità del Ssn italiano passa per la prevenzione cardiovascolare, che consente anche di aumentare gli anni di vita vissuti in salute - prosegue -. Da tutte queste premesse nasce l’idea della redazione di un documento intersocietario, poiché in questo modo, a parlare e a dare indicazioni e raccomandazioni sono gli esperti e perché è possibile affrontare, ad esempio, temi trascurati anche nei documenti internazionali come: bambini, anziani, donne, esercizio e sport, vaccinazioni, polifarmacoterapia, compliance. Senza naturalmente trascurare i grandi temi sviluppati da altre linee guida, quali ipertensione e diabete. Il nostro documento a mio avviso segna una traccia ed apre una strada nuova che speriamo generi altre azioni", conclude.
 
I numeri della malattie cardiovascolari e dei fattori di rischio. "La prevalenza dei fattori di rischio cardiovascolari nella popolazione generale è sempre drammaticamente elevata: l'ipercolesterolemia interessa il 68 per cento dei maschi adulti e il 67 per cento delle femmine adulte; la prevalenza del diabete è dell’11 per cento tra i maschi e dell’8 per cento tra le donne; quella della sindrome metabolica del 24 per cento tra i maschi e del 19 per cento tra le femmine. Importante anche la prevalenza di sedentarietà (32 per cento tra i maschi e 42 per cento tra le femmine) e di obesità (25 per cento in entrambi i sessi), che rappresentano fattori di rischio non solo per le malattie cardiovascolari, ma anche per i tumori", spiega Volpe. 
 
"Se consideriamo che circa il 70 per cento dei decessi è dovuto a malattie cardiovascolari e tumori, si comprende bene l'importanza del credere nella prevenzione, sia individuale che a livello di popolazione. Prevenzione che può e deve essere cardio-oncologica. Ma per migliorare la prevenzione, non è sufficiente solo un maggior impegno della classe medica, è fondamentale allearsi con altre figure professionali: infermieri, psicologi, dietisti, farmacisti, personale della ristorazione, insegnanti, studenti, giornalisti, politici.
 
A tal proposito, come Siprec stiamo portando avanti una campagna di sensibilizzazione nei confronti dei nostri europarlamentari affinché entrino a far parte dell'Heart Group del Parlamento Europeo, che finora contava solo due parlamentari italiani. Per il momento, un primo piccolo successo l'abbiamo ottenuto: siamo passati a cinque rappresentanti. Un altro aspetto che coinvolge direttamente noi medici e il nostro rapporto con i pazienti, è l'inadeguatezza del trattamento. Nonostante l'ampia disponibilità di farmaci dotati di un buon rapporto costo/beneficio, ancora oggi, raggiungono gli obiettivi terapeutici fissati dalle linee guida solo il 24 per cento dei maschi e il 17 per cento delle femmine con colesterolo elevato, solo il 13 per cento dei maschi e il 21 per cento delle femmine con diabete.
 
Tutto ciò comporta una maggior morbilità e mortalità e maggiori costi. Questo dato deve farci riflettere ed essere uno stimolo a fare screening opportunistici per identificare i soggetti a rischio, sensibilizzarli e motivarli al fine di migliorarne l’adesione ai giusti stile di vita, o agli interventi nutraceutici o farmacologici e seguirli nel tempo, sempre in ottica di migliorarne la compliance, altro ‘tallone di Achille’ della prevenzione cardiovascolare su cui lavorare", aggiunge il presidente Siprec. 
 
Focus sul colesterolo. "L’aterosclerosi è causata non dal colesterolo in sé, ma dalle lipoproteine LDL (il cosiddetto colesterolo ‘cattivo’) che trasportano il colesterolo nel sangue; questi involucri/trasportatori del colesterolo se si depositano sulle pareti delle arterie finiscono con l’ostruirle. Ridurre le LDL significa dunque ridurre il rischio di malattie cardiovascolari. E questo può essere ottenuto attraverso la dieta, con i nutraceutici o con farmaci; ogni paziente presenta caratteristiche diverse che suggeriscono il tipo di intervento richiesto. La riduzione del livello di LDL per prevenire le malattie cardiovascolari è diverso in prevenzione primaria e secondaria: prima di un infarto basta ridurle di poco, ma per lungo tempo; dopo un infarto occorre in poco tempo ridurle di molto", spiega Enzo Manzato, presidente della Società Italiana per lo Studio dell’Aterosclerosi (Sisa).
 
"E’ comunque ormai chiaro che quanto minore è la concentrazione delle LDL, tanto meglio è per le arterie; qualche paziente vive bene (e riduce il rischio di infarto) con un colesterolo LDL di 10 mg/dl. Per ottenere valori così bassi è necessario utilizzare in combinazioni appropriate farmaci quali statine, ezetimibe e anticorpi anti-PCSK9. Un messaggio per i pazienti che hanno avuto un infarto: non abbiate paura delle basse concentrazioni di colesterolo delle LDL. Un messaggio per i pazienti che non hanno avuto un infarto: le basse concentrazioni di colesterolo delle LDL sono uno dei mezzi oggi fondamentali per prevenire l’infarto", conclude.
 
Lo tsunami diabete e le malattie cardiovascolari. "Il controllo glicemico, unitamente alla valutazione dei fattori di rischio cardiovascolari, è fondamentale per la gestione del diabete di tipo 2 e per ridurre il carico di malattia correlato alle patologie cardiovascolari e renali. Le modificazioni dello stile di vita, una sana alimentazione e la pratica dell’ attività fisica sono efficaci nella prevenzione primaria dell’insorgenza di diabete nei soggetti ad alto rischio. Da circa 15 anni assistiamo a un boom di nuovi farmaci per la terapia del diabete. Tra questi, i farmaci incentrati sul sistema degli ormoni intestinali hanno costituito una importante novità per il loro favorevole profilo di efficacia e di sicurezza. Infatti, gli inibitori della dipeptidil peptidasi-4 (DPP-4), l’enzima responsabile della degradazione dell’ormone intestinale glucagon-like peptide-1 (GLP-1) prodotto dalle cellule intestinali, sono in grado di combinare la riduzione della glicemia con effetto neutro su peso corporeo, basso rischio d’ipoglicemia e ottima sicurezza cardiovascolare", spiega Giorgio Sesti, presidente della Società Italiana di Diabetologia (Sid).
 
"Gli analoghi del GLP-1, che a differenza degli inibitori di DPP-4 sono somministrati per via iniettiva sottocutanea, sono in grado di migliorare il controllo glicemico senza rischio d’ipoglicemia, di ridurre il peso corporeo e la pressione arteriosa e di avere effetti benefici sugli eventi cardiovascolari e sulla mortalità per tutte le cause. L’ultima classe di farmaci introdotti nell’arsenale terapeutico del diabete tipo 2 è quella degli inibitori del co-trasportatore sodio-glucosio 2 (SGLT2), molecole in grado di bloccare il riassorbimento renale del glucosio e quindi aumentare la sua eliminazione attraverso le urine migliorando il controllo della glicemia, unitamente alla riduzione del peso corporeo e della pressione arteriosa. Inoltre, i risultati degli studi sulla sicurezza cardiovascolare degli inibitori di SGLT2 hanno dimostrato una significativa riduzione degli eventi cardiovascolari", conclude.
 
Perché occuparsi ancora di ipertensione arteriosa con un documento intersocietario? A spiegarlo è Claudio Ferri, presidente della Società Italiana dell’Ipertensione Arteriosa (Siia): "In primis perché è il fattore di rischio più diffuso e letale che ci sia in Italia: interessa ormai il 10 per cento dei bambini, il 37 per cento di tutta la popolazione adulta ed il 55 per cento di quella che va dalla media età all’età avanzata. Poi perché è ancora troppo poco considerata. Secondo le stime della Società italiana dell’ipertensione arteriosa (Siia) non più del 55-60 per cento degli italiani ipertesi è ben controllato e almeno un quarto degli ipertesi lo sono, ma non lo sanno; oppure lo sanno, ma non fanno nulla per curarsi. Infine perché l’ipertensione fa da traino all’insorgenza di malattia ipertensiva e degli altri fattori di rischio: solo il 20 per cento degli ipertesi italiani è iperteso e basta. Gli altri hanno già malattia ipertensiva e/o altri fattori di rischio comparsi prima o più comunemente dopo l’ipertensione arteriosa".
 
"Il documento appena messo a punto è ‘tecnico’, per addetti ai lavori; ma volendone tradurre il messaggio in modo semplice si può dire che esso spiega agli italiani che devono mangiare meglio, bere meglio, fare attività fisica, non fumare e misurarsi la pressione arteriosa anche se stanno bene. Una volta misurata la pressione, se alta, debbono capire perché lo è e curarsi: sempre con l’aiuto del medico di famiglia e tutte le volte che occorre ricorrendo ad un centro accreditato dalla Siia.
 
E’ necessario comprendere che l’ipertensione arteriosa è spesso parte di una situazione complessa ed a rischio: bisogna quindi considerare anche tutti gli altri fattori di rischio e correggerli tutti. Importante anche allargare, senza allarmismi, il controllo occasionale ai familiari: una mamma ipertesa avrà più facilmente di una normotesa dei figli che, nel tempo, diventeranno ipertesi. L’errore più comune che fanno gli italiani in merito alla pressione arteriosa è che non se la misurano: dovrebbero farlo sempre, a partire dall’età pediatrica, anche se stanno bene. Mai meno di una volta l’anno, che è già pochissimo", aggiunge.
 
"Altro errore di fronte alla pressione alta è ritenere che sia possibile curarla con una pillola. Non è così: una volta fatti tutti gli accertamenti e curata l’ipertensione arteriosa, bisogna verificare che la pressione diventi normale. I farmaci antiipertensivi sono ottimi e sicuri: la loro efficacia va però verificata misurando la pressione. Non si può infine non considerare e non correggere uno stile di vita improprio: molto spesso gli ipertesi fumano, ad esempio, e mangiano in modo sbagliato. Lo studio MINI-SAL - condotto con il contributo fondante di Siia - dimostra che solo una minoranza degli ipertesi italiani segue una dieta corretta in termini di apporto di sale. Come mai? O noi medici non siamo capaci, o i cittadini sono pigri, o l’educazione sanitaria è scarsa o è un mix un di tutto questo. Il documento intersocietario è quindi uno strumento utile a scardinare questi errori", conclude Ferri.
 
I farmaci per la prevenzione cardiovascolare non possono sostituire un corretto/sano stile di vita. Stile di vita e farmaci devono sempre andare di pari passo. Ma come migliorare l’aderenza alla terapia? Sul tema interviene Annalisa Capuano, Segretario del Comitato della Sezione di Farmacologia Clinica “Giampaolo Velo” della Società Italiana di Farmacologia (Sif): "Per la prevenzione cardiovascolare è fondamentale agire sui cosiddetti fattori di rischio modificabili, ovvero la dieta, il peso corporeo, i livelli plasmatici di lipidi e glucosio nonché su patologie come l’ipertensione arteriosa. Su tali fattori è possibile intervenire con approcci, in primis, comportamentali e, successivamente, farmacologici. Corretti stili di vita, caratterizzati da una sana ed equilibrata alimentazione (dieta mediterranea), adeguato esercizio fisico, abolizione dell’utilizzo di fumo e alcol sono fondamentali per ottenere la massima efficacia dei trattamenti farmacologici utili per la prevenzione cardiovascolare, siano essi farmaci impiegati per il trattamento dell’ipertensione, del diabete, delle dislipidemie o dell’obesità. I soli trattamenti farmacologici, seppur innovativi (come i recenti inibitori di PCSK9 indicati nel trattamento delle dislipidemie o le gliflozine nel trattamento del diabete), non riescono infatti a correggere il ‘rischio cardiovascolare residuo’, che invece richiede interventi mirati sui fattori di rischio modificabili del singolo paziente".
 
"Infatti, sono ancora tanti i pazienti che continuano ad essere esposti ad un consistente rischio di eventi cardiovascolari, nonostante siano trattati con le migliori strategie preventive. Pertanto, l’utilizzo di strategie farmacologiche non deve sostituire corretti approcci comportamentali: un’alimentazione sana, una regolare attività fisica e non fumare sono i primi e più importanti passi da compiere per combattere le malattie cardiovascolari", conclude.
 
Aderenza e compliance in prevenzione cardiovascolare restano un ostacolo da superare. La poli-pillola potrebbe rappresentare una soluzione. "Negli ultimi 30 anni - aggiunge - la poli-farmacoterapia (riferita all’impiego concomitante di 5 o più farmaci) ha trovato largo impiego nella pratica clinica per la prevenzione del rischio cardiovascolare, soprattutto nella popolazione anziana. L’impiego di più farmaci permette di contrastare contemporaneamente più fattori di rischio cardiovascolare, ma numerosi fattori ne limitano il corretto utilizzo. Assumere più farmaci durante la giornata può risultare particolarmente complicato per i pazienti anziani, che spesso attribuiscono una priorità soggettiva ad un farmaco rispetto ad un altro sulla base, per esempio, del suo profilo di tollerabilità (comparsa di reazioni avverse a farmaco); altre volte si confonde un farmaco con un altro per similarità della confezione o per somiglianza del nome commerciale (errore terapeutico). Tutto ciò può portare a scarsa o mancata aderenza terapeutica (ovvero il paziente non assume i farmaci in accordo alle prescrizioni-raccomandazioni del medico riguardo alla durata della terapia, alle dosi e alla frequenza nell’assunzione), che oggi rappresenta una delle principali causa di mancata efficacia delle terapie farmacologiche. C’è poi il rischio di possibili interazioni farmaco-farmaco che spesso espongono il paziente ad un aumentato rischio di comparsa di eventi indesiderati". 
 
"È in questo particolare momento che può avere inizio la cosiddetta prescribing cascade, che comincia quando una reazione avversa a farmaco viene erroneamente interpretata come una nuova condizione clinica, per la quale viene somministrato un nuovo farmaco, che a sua volta può esporre il paziente a rischio di comparsa di ulteriori eventi avversi correlati a quel trattamento potenzialmente superfluo. Nel tentativo di ovviare ai problemi correlati alla polifarmacoterapia, negli ultimi anni si è assistito alla sperimentazione e produzione della poli-pillola, ossia l'associazione in una sola pillola di principi attivi diversi".
 
"La poli-pillola nasce come possibile strategia per far fronte alle problematiche dell’aderenza del paziente, rendendo più semplice la gestione della terapia farmacologica, soprattutto per il paziente anziano. A dimostrazione di ciò, un recente studio pubblicato sulla rivista scientifica internazionale BMJ ha mostrato che la poli-pillola si associa a maggiore aderenza al trattamento rispetto ai singoli farmaci assunti contemporaneamente. Uno dei principali limiti che si correlano all’utilizzo della poli-pillola, soprattutto quando utilizzata per la prevenzione cardiovascolare, è rappresentato dall’impossibilità di modificare il dosaggio dei singoli principi attivi in base alle necessità del singolo paziente (terapia personalizzata). In ogni caso, l’utilizzo della poli-pillola non è raccomandato all’inizio della terapia ma come terapia di sostituzione in pazienti già controllati con i singoli principi attivi assunti alla stessa dose. La personalizzazione della poli-pillola potrebbe, pertanto, rappresentare un obiettivo futuro per migliorare l'aderenza alle terapie farmacologiche", conclude.
 
"L’attività fisica - spiega Giorgio Galanti, Federazione Medico Sportiva Italiana (Fmsi) - è uno dei più importanti determinanti della salute pubblica. Si definisce ‘attività fisica’ qualsiasi movimento corporeo prodotto dalla contrazione dei muscoli scheletrici che aumenta il dispendio energetico sopra il livello basale. Un’insufficiente attività fisica è infatti associata frequentemente ad un aumentato rischio di malattie croniche non trasmissibili come il diabete, l’ipertensione, le malattie cardiache e varie forme di cancro. Ridotta attività fisica e sedentarietà rappresentano pertanto due componenti fortemente deleterie per lo stato di salute della popolazione generale e molti di questi aspetti che caratterizzano il comportamento generale vengono maturati e consolidati in età precoce. Infatti, nonostante un ‘indice di massa corporea’ superiore alla norma o una condizione di obesità con aumento della circonferenza addominale sia spesso associato a un rischio cardiovascolare aumentato, è ben noto come soggetti fisicamente attivi, benché in sovrappeso, abbiano un rischio cardiovascolare inferiore rispetto ai soggetti sedentari".
 
La sedentarietà, un importantissimo fattore di rischio cardiovascolare. "Secondo i dati dell’Oms l’inattività fisica è il quarto fattore di rischio di mortalità globale (responsabile del 5-6 per cento di tutti decessi, pari a oltre 3 milioni di persone per anno). Come causa di morte a livello mondiale, essa è preceduta solo dall’ipertensione arteriosa, dal fumo e dall’iperglicemia, seguita dal sovrappeso e dall’ipercolesterolemia. L’inattività fisica è nel mondo causa di circa il 21-25 per cento dei tumori di mammella e colon, del 27 per cento dei casi di diabete e di circa il 30 per cento dei casi di cardiopatia ischemica. Nonostante questo, purtroppo, troppe persone continuano ad essere fisicamente non attive. In Italia, secondo i dati del Progetto PASSI dell’Istituto Superiore di Sanità continuano ad essere fisicamente non attive circa 4 persone su 10. Questo è vero non solo nella popolazione generale ma anche nei pazienti cardiopatici, che pure dovrebbero essere particolarmente motivati a cambiare il proprio stile di vita. In questo contesto è ancora troppo basso l’accesso dei cardiopatici alle strutture di riabilitazione cardiologica", spiega Roberto Pedretti, presidente del Gruppo Italiano di Cardiologia Riabilitativa e Preventiva.
 
L’attività fisica protegge come un farmaco. "L’attività fisica è protettiva e aiuta a farci vivere di più, riducendo inoltre lo stress e aumentando il benessere individuale. Possiamo dire che l’attività fisica è per l’organismo un vero e proprio ‘farmaco naturale’. Si può essere fisicamente attivi svolgendo sport, seguendo un programma di esercizio fisico (un’attività fisica programmata, strutturata, ripetitiva, il cui obiettivo è quello di migliorare o mantenere uno stato di efficienza fisica-fitness). Si può essere fisicamente attivi anche in altro modo, cambiando il modo di comportarsi durante la vita di tutti i giorni, grazie all’attività lavorativa, al trasporto attivo (camminare, andare in bicicletta, salire le scale senza più usare l’ascensore), alla attività del tempo libero, attraverso il gioco e il ballo", conclude.

 

  






 
9 marzo 2018
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