Multidisciplinarietà, terapia personalizzata, pazienti più consapevoli: ecco le tre grandi sfide che gli esperti e operatori della salute che si occupano di melanoma si trovano oggi a fronteggiare per offrire ai pazienti colpiti il massimo dei benefici dalle terapie disponibili.
A delineare le priorità, un documento stilato da un panel di esperti impegnati in prima linea nella cura di questa patologia oncologica presso centri di riferimento ed eccellenza nel nostro Paese e realizzato grazie al contributo incondizionato di Novartis nell’ambito del suo progetto Next 10, che nasce proprio con l’obiettivo di delineare le principali sfide che l’oncologia di precisione pone nel prossimo futuro.
“Siamo di fronte a una vera e propria rivoluzione legata alla scoperta di diversi tipi di melanoma: non è più appropriato parlare di un’unica patologia, ma di un insieme di malattie, che possono differenziarsi per le caratteristiche biologiche e cliniche delle lesioni nonché per la risposta alle terapie”, commenta
Giuseppe Palmieri, presidente dell’Intergruppo melanoma italiano (IMI).
“Il melanoma – prosegue - è un nemico insidioso, dalle molte facce, di molte delle quali, negli ultimi anni, si è riusciti a tracciare un identikit, caratterizzandole a livello molecolare, ovvero identificando le mutazioni genetiche che, all’interno della cellula tumorale, ne regolano la crescita come ad esempio la mutazione a carico del gene BRAF che è presente nel 50% circa dei melanomi cutanei. Considerando che esiste anche un microambiente tessutale con cui interagisce continuamente la cellula tumorale di melanoma, diventa chiaro che c'è ancora molta strada da fare verso una più accurata e completa classificazione molecolare dei diversi sottogruppi di pazienti con melanoma”.
Grazie a queste nuove conoscenze diagnostico-terapeutiche si può intervenire in modo più efficace: nonostante la mortalità resti stabile, con oltre 2.000 decessi per melanomi cutanei registrati annualmente in Italia, la sopravvivenza a 5 anni è pari all’87% ed è in crescita rispetto al passato. Un risultato importante, se si pensa che il melanoma è la seconda neoplasia più frequente tra i tumori giovanili negli uomini e la terza tra quelli giovanili femminili, con un’incidenza in continua crescita, che fa registrare 14.000 nuovi casi ogni anno (dati: AIOM AIRTUM 2017).
“Un incremento riconducibile – spiega
Giovanni Pellacani, direttore della Clinica dermatologica, e preside della Facoltà di medicina, Università di Modena e Reggio Emilia - a una serie di cause, tra cui un’aumentata e scorretta esposizione al sole da parte di soggetti con maggiore suscettibilità alle scottature, con pelle chiara. Soprattutto esposizione solare o all’utilizzo di abbronzature artificiali eccessiva nell’età dello sviluppo risulta essere responsabile dell’aumentato rischio di sviluppare un melanoma nella propria esistenza”.
“Anche la diagnosi precoce e una maggiore attenzione della popolazione al problema melanoma - aggiunge Pellacani - hanno sicuramente contribuito ad aumentare l’incidenza, tuttavia la diagnosi precoce rimane tuttora la migliore e più efficace strategia terapeutica, eliminando la patologia in una fase in cui non ha ancora prodotto metastasi. Permane quindi la necessità di potenziare il flusso informativo, proprio per promuovere comportamenti positivi, come l’attenzione all’esposizione solare e al controllo dei nei”.
Se queste sono le cause già note, recenti studi stanno indagando il ruolo di altri possibili fattori di rischio. In Italia, dati preliminari di un gruppo di lavoro tra Istituto superiore Sanità e Associazione italiana registri tumori (AIRTUM) sembrano evidenziare un aumento di incidenza del melanoma nella popolazione residente in aree esposte a più elevate concentrazioni di inquinanti ambientali prodotti da industrie chimiche e/o petrolchimiche, raffinerie, acciaierie, centrali elettriche, miniere o cave, aree portuali, discariche e inceneritori. Ulteriori studi potranno confermare o meno questa correlazione.
Anche sul fronte delle innovazioni diagnostiche e terapeutiche gli avanzamenti sono significativi. Negli ultimi anni, si è assistito a un’implementazione delle metodiche di diagnosi precoce, a un potenziamento del ruolo della chirurgia e all’avvento di nuove cure.
“Se, da un lato tutto questo permette risultati migliori, dall’altro richiede cambiamenti nella gestione, soprattutto nei casi di melanoma avanzato. Un tempo il paziente passava in carico da uno specialista all’altro, in una sorta di staffetta per arrivare alla meta”, spiega
Mario Santinami, direttore struttura complessa Chirurgia melanomi e sarcomi, Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. “La sfida oggi – aggiunge - è quella di lasciarsi alle spalle questo approccio anacronistico, a favore di una presa in carico multidisciplinare.”
Le nuove opzioni diagnostiche e terapeutiche rendono infatti la diagnosi, il trattamento e il follow-up del melanoma un processo molto complesso, nel quale più attori sono chiamati a svolgere in modo coordinato la loro parte: il chirurgo si affianca al dermatologo, all’oncologo, all’anatomopatologo, al radioterapista, al radiologo, al biologo molecolare.
Nel melanoma metastatico una sfida ancora più cruciale e da affrontare con la massima tempestività è quella di individuare la cura giusta per il paziente giusto.
La chemioterapia non è più oggi l’unica opzione. Sono disponibili anche farmaci target, in grado di legarsi specificamente ai bersagli molecolari identificati nelle cellule tumorali, e agenti immunoterapici, che potenziano l’azione del sistema immunitario contro la malattia.
“Ma per usare al meglio queste nuove armi a disposizione, il team multidisciplinare deve entrare in gioco fin dal primo step, per effettuare la valutazione dello status mutazionale, come quella a carico del gene BRAF - spiega
Paola Queirolo, direttore Uo melanoma e tumori cutanei, Policlinico San Martino, Genova -. L’individuazione della mutazione guida poi il team di specialisti nella scelta della terapia capace di agire in modo mirato su quel particolare paziente e quel melanoma, in combinazione con l’appropriata strategia chirurgica e radioterapica”.
“In alcuni casi – aggiunge Queirolo - è consigliabile intervenire anche a fronte di una progressione minima, perché la risposta può essere migliore e più duratura: iniziare una terapia target a bersaglio molecolare in un paziente che ha una malattia oligometastatica, cioè con un numero limitato di lesioni tumorali, ha una previsione di sopravvivenza a tre anni del 70%, probabilità che può quasi dimezzarsi (40% in tre anni) se si rimanda l’intervento in presenza di una più estesa diffusione della patologia”.
“A fronte della complessità registrata e dei molteplici benefici che l’approccio multidisciplinare può garantire, sussiste oggi l’opportunità di promuoverne e sostenerne lo sviluppo nei centri specializzati nella gestione della patologia esistenti in Italia, su modello di quanto è stato fatto per il tumore al seno con l’istituzione delle Breast Unit”,
conclude Palmieri.
Altrettanto importante in quest’evoluzione, è la condivisione di tutti questi nuovi saperi con il paziente, spesso confuso dalla complessità degli scenari e delle opzioni diagnostico-terapeutiche disponibili. Un disorientamento acuito dalla vasta mole di informazioni non sempre puntuali o autorevoli a cui il paziente è esposto tramite il web o i social media. Molte sono le fake news circolanti: tra queste, per esempio, la convinzione che in caso di metastasi la via chirurgica immediata sia sempre da preferire, mentre gli avanzamenti scientifici indicano oggi la possibilità di percorsi diversi, dove la terapia medica può essere più funzionale in una prima fase e l’approccio chirurgico valutabile in un momento successivo.
Su queste considerazioni si innesta la terza sfida individuata dagli esperti: quella di promuovere il patient empowerment, ovvero una maggiore consapevolezza del paziente ed un suo ruolo attivo nell’affrontare il processo di diagnosi e cura insieme al suo team di specialisti.