Tossicodipendenti e persone in regime di detenzione sono un serbatoio importante di diffusione della malattia da HCV. Circa il 90% delle nuove infezioni colpisce soggetti che fanno uso di droghe per via iniettiva e un detenuto su tre è affetto da Epatite C. Strategico assicurare una presa in carico completa garantendo anche l’accesso alle nuove terapie.
A puntare i riflettori su popolazioni speciali e infezione cronica da HCV è stato il
convegno nazionale “Inside PWID: La gestione dell’infezione da HCV nel consumatore di sostanze: mind the gaps” organizzato a Mestre il 12 ottobre con il contributo non condizionato di Gilead. Un’occasione di confronto e approfondimento sulle più aggiornate evidenze scientifiche e cliniche per il trattamento dell’epatite C nei consumatori di sostanze e sulle criticità che queste popolazioni presentano.
Creare un Network nazionale, sviluppare algoritmi condivisi per la pratica clinica di gestione dei pazienti con tossicodipendenze (PWID) prevenendoli dalle reinfezioni con l’obiettivo di eradicare la malattia, assicurando così una vera e propria operazione di sanità pubblica: è stato questo l’obiettivo sul quale esperti di settore si sono confrontati.
“Abbiamo voluto affrontare il tema cruciale della presa in carico del consumatore di sostanze con HCV attraverso un confronto serrato tra specialisti delle dipendenze, infettivologi ed epatologi – ha spiegato
Felice Alfonso Nava, Direttore Uo Sanità penitenziaria Azienda Ulss 6 di Padova e Coordinatore Scientifico del Convegno – oggi le nuove terapie con DAA permettono l’eradicazione e la guarigione dall’infezione HCV-correlata, ma in qualche modo rappresentano anche un forte paradigma nell’integrazione ospedale-territorio permettendo da una parte una presa in carico olistica del consumatore di sostanze e dall’altra di sviluppare l’accesso alle cure anche per questa categoria di utenti, serbatoio importante per la diffusione dell’infezione. Ma in quest’ottica sarà fondamentale introdurre misure di riduzione del danno (Harm reduction) per evitare la reinfezione da parte di questi pazienti”.
Sui tavoli di lavoro c’è quindi una necessità impellente: identificare le barriere che limitano l’accesso alle terapie sviluppando un algoritmo per la presa in carico del paziente PWID (People who inject drugs) con infezione da HCV, in modo da implementare la collaborazione fra diversi specialisti e sviluppare modelli integrati di lavoro. Inoltre è importante concretizzare azioni specifiche per intervenire nelle carceri, dove le percentuali di infezione sono alte.
Un traguardo ambizioso che procede sul solco tracciato dal Piano Nazionale per l’eradicazione dell’HCV voluto dall’Agenzia Italiana del Farmaco e dal ministero della Salute e che prevede di trattare con i nuovi farmaci 80mila persone all’anno nei prossimi tre anni riducendo i nuovi casi e i decessi legati alle epatiti virali.
Categoria a rischio. Le persone che fanno uso di droghe per via iniettiva o inalatoria (specialmente se non si utilizzano strumenti monouso) rappresentano la categoria a maggior rischio d’infezione. Tuttavia non ci sono dati certi e documentati sull’ampiezza del fenomeno. “Per quanto riguarda la prevalenza dell’epatite C nei tossicodipendenti abbiamo solo dati ‘spot’ che riportano una prevalenza di sieropositività per HCV che varia dal 30 al 60% – ha spiegato
Massimo Andreoni, Direttore Uoc. Malattie Infettive e Day Hospital Dipartimento di Medicina, Policlinico Tor Vergata, Roma – nella regione Lazio, ad esempio, i dati di uno studio attualmente in corso testimoniano che più del 30% delle persone che fanno uso di sostanze per via endovenosa hanno infezione da HCV, persone attualmente ignare di essere malate”.
Ma il dato più allarmante, come emerso dai dati più recenti dell’Ecdc, ha aggiunto Andreoni “è che circa il 90% delle nuove infezioni da HCV colpiscono soggetti che fanno uso di sostanze per via iniettiva”. “Alla luce di questi dati e ragionando in termini di contenimento di questa epidemia – prosegue – dobbiamo inevitabilmente attuare misure per trattare queste persone, anche perché i risultati di efficacia della terapia sono comunque equivalenti a quelli della popolazione generale. A questo dobbiamo aggiungere che abbiamo osservato nei PWID una maggiore attenzione verso l’infezione da HCV rispetto ad HIV in quanto quest’ultima viene percepita come una patologia con la quale si può convivere. L’Epatite C paradossalmente spaventa di più proprio perché fino a poco tempo fa era considerata incurabile. Inoltre le vecchie terapie erano impegnative in termini di durata del trattamento ed erano difficili da portare a termine a causa dei numerosi effetti collaterali. Sapere ora di avere un trattamento efficace e ben tollerato con alti tassi di guarigione, aumenta l’aderenza alla terapia di questa popolazione speciale”. Insomma un’opportunità da non perdere.
La popolazione carceraria rappresenta un importante concentratore di patologie e allo stesso tempo un ottimo modello per aggredire uno dei principali serbatoi di infezione e ricircolo dell’infezione da HCV. L’avvento delle nuove terapie ha fornito gli strumenti per intraprendere questo ambizioso obiettivo, anche se vari fattori di natura strutturale, organizzativa, ambientale, personale ostacolano il trattamento della popolazione carceraria con conseguenti ricadute sulla sanità pubblica
“Un detenuto su tre è affetto da HCV”. Ogni anno circolano nei penitenziari italiani oltre 100mila persone, un terzo di queste è incarcerato per reati relativi all’uso e spaccio di stupefacenti. Secondo le stime degli ultimi anni, la prevalenza di positività ad HCV nella popolazione detenuta si attesta tra il 30 e 40%, che di fatto significa avere 20-25.000 pazienti infetti presenti negli istituti di pena ogni anno. A differenza dei soggetti con HIV, i pazienti HCV-positivi sono per lo più ignari della loro condizione e hanno un rischio fino a 6 volte superiore di trasmettere l’infezione rispetto a chi conosce il proprio status di sieropositività.
“Un detenuto su tre è affetto da epatite C e il problema sarebbe oggi risolvibile – ha detto
Sergio Babudieri, Direttore delle Malattie Infettive dell’Università degli Studi di Sassari – in quanto i Lea dal 2017 sono entrati a far parte dell’ambito penitenziario. Questo può imprimere una nuova svolta per far passare la sanità penitenziaria da una fase attendista ad una fase proattiva, con una presa in carico di tutte le persone che vengono detenute. Serve quindi, a livello centrale e regionale, una riorganizzazione adeguata di diagnosi e assistenza al detenuto malato, a partire dalla sua presa in carico”.
Considerando quindi l’elevata prevalenza di infezioni da HCV negli istituti penitenziari, aggiunge Babudieri, l’obiettivo principale diventa quello di “ripulire” i serbatoi umani di infezione, con l’obiettivo di eliminare l’infezione da HCV. “In questo scenario i nuovi Direct acting antiviral drug (DAA) pangenotipici, ad elevata efficacia e con terapia di breve durata appaiono i farmaci ideali per il trattamento dei pazienti detenuti – ha concluso Babudieri –Fondamentale sarà la rapidità della diagnosi, la valutazione ed eleggibilità al trattamento e la tempestiva reperibilità dei farmaci”.