Uno studio presentato al congresso dell’ESMO di Madrid, il NOR-CAYACS è andato ad indagare la capacità lavorativa di 1.198 persone alle quali, nel periodo 1985-2009 (
Cancer Registry Norway), era stato diagnosticato un tumore (melanoma, tumore del colon retto, tumore della mammella stadio I-III, linfoma non Hodgkin o leucemie) all’età di 19-39 anni e vivi nel settembre 2015 (l’età media al momento della survey era di 49 anni).
A tutti è stato spedito un questionario sugli effetti tardivi del trattamento e sullo stato lavorativo, nel quale veniva chiesto loro anche di darsi un ‘voto’ da 0 (inabilità lavorativa) a 10 (la più elevata abilità lavorativa) sulla scala del
Work Ability Index.
Dalle risposte ricevute risulta che il 60% degli intervistati lavorava a tempo pieno, ad una distanza media di 13 anni dalla fine del trattamento oncologico. L’identikit di chi aveva totalizzato un basso punteggio di
Work Ability Index era: donna, con basso grado di istruzione, depressa, con fatigue, lindema, ridotta qualità di vita fisica e scarso stato di salute autoriferito. I sopravvissuti ad un linfoma non Hodgin erano quelli con il minor punteggio di capacità lavorativa, mentre i soggetti con melanoma si collocavano all’estremo opposto.
“Abbiamo riscontrato – commenta
Cecilie Kiserud, direttore del
National Advisory Unit for Late Effects After Cancer Treatment, Oslo University Hospital, Oslo - che gli effetti collaterali tardivi fisici e psicologici del cancro sono associati in maniera significativa ad una ridotta capacità lavorativa. Per contro, il tipo di tumore (con la sola eccezione del linfoma non Hodgkin) e l’intensità dei trattamenti oncologici non risultano impattare sulla capacità lavorativa. E’ necessario fare
awareness sul fatto che i sopravvissuti ad un tumore potrebbero essere meno in grado di lavorare dopo le terapie a causa degli effetti collaterali tardivi delle stesse”.
“L’80% circa dei giovani affetti da tumore possono oggi essere curati – afferma il professor
Gilles Vassal, direttore della Ricerca Clinica, Gustave Roussy, Villejuif (Francia) e
Past President della
European Society for Paediatric Oncology (SIOPE) - ma le cure sono intensive e due
survivor su tre presentano conseguenze fisiche e psicologiche di lunga durata. Questo studio dimostra che sono proprio gli effetti somatici e psicologici delle terapie a ridurre la capacità lavorativa, più del cancro in sé. ”.
Gli effetti indesiderati dei trattamenti insomma possono comparire anche a distanza di mesi o anni dal termine della terapia, e se una persona si è ammalata di cancro in età giovanile, possono interferire con la carriera lavorativa. “Per questo i giovani che si ammalano di tumore – conclude Vassal – dovrebbero ricevere informazioni chiare sui potenziali effetti tossici dei trattamenti oltre che essere sottoposti ad attento monitoraggio per minimizzare la gravità delle conseguenze a lungo termine. Sono inoltre necessari degli studi clinici prospettici volti ad individuare trattamenti che riducano il rischio di tossicità tardive, senza al contempo mettere in predicato le probabilità di superare la malattia”.
“Dall'evidenza all'azione! Questo in sintesi il messaggio che noi ex malati di tumore vogliamo che arrivi con chiarezza all'intero contesto sociale, scientifico e politico”. A parlare è
Elisabetta Iannelli, Segretario Generale FAVO, che prosegue: “Studi come quello norvegese presentato all'Esmo 2017 non fanno che confermare ciò che i pazienti, con il sostegno del volontariato oncologico, affermano da tempo: chi ha ricevuto una diagnosi di cancro, soprattutto se ne è totalmente guarito, può e vuole continuare a lavorare poiché il lavoro è terapeutico ed è fondamentale per il pieno ritorno alla vita dopo la malattia”.
“Perdere il lavoro o essere licenziati, subire discriminazioni o demansionamenti in conseguenza del cancro - prosegue Iannelli - sono traumi dolorosi e lesivi della dignità della persona, oltreché profondamente ingiusti e, pertanto, inaccettabili. Lo studio Norvegese conferma che più della metà degli ex malati a distanza di oltre un decennio dalla diagnosi continua a lavorare a tempo pieno ma ci dice anche che i soggetti più fragili che, purtroppo, sono in prevalenza donne, sono a maggior rischio di esclusione sociale e di povertà (come confermato da alcuni studi sulla tossicità finanziaria). E' ormai noto che effetti a lungo termine o tardivi connessi e conseguenti al cancro ed alle terapie antineoplastiche, costituiscono un rischio aggiuntivo di salute e possono essere un ostacolo invalidante anche sul lavoro, se non vengono poste in essere azioni concrete per rimuovere queste barriere culturali e sociali”.
“Noi ex malati conosciamo - conclude - bene le difficoltà che accompagnano la vita dopo il cancro ma occorre fare alcuni passi ancora perché questa consapevolezza sia piena e non rimanga invece come un senso di inadeguatezza quando non addirittura di colpevolezza, quasi che la
fatigue oncologica sia sinonimo di pigrizia o indolenza. Ben vengano documenti informativi e linee guida che contemplano gli effetti sulla lungo-sopravvivenza oncologica e che forniscono indicazioni ai curati ed ai curanti su come monitorarli e gestirli, ma occorre poi che sia realmente assicurata una effettiva riabilitazione oncologica, anche di tipo psicologico, per consentire il reinserimento socio-lavorativo come da tempo affermato e richiesto con forza e convinzione dalle organizzazioni del volontariato oncologico riunite nella FAVO”.
Maria Rita Montebelli