La sanità sa far registrare belle storie di successo, anche su vasta scala. Una di queste è il divieto di fumo nei luoghi pubblici, di cui l’Italia può vantarsi di essere stata un’antesignana, almeno in Europa (la California è stata la prima al mondo a vietare completamente il fumo negli spazi chiusi, nel 1998) grazie alla legge Sirchia del 16 gennaio 2003. E più di recente, un’accelerazione in questa direzione è stata data dall’adozione della
Framework Convention for Tobacco Control dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, un trattato evidence-based che riafferma i diritti di tutti i popoli a raggiungere i migliori standard di salute, messa a punto in risposta all’epidemia planetaria ‘tabacco’.
Iniziative solide, determinanti, necessarie, ma purtroppo non del tutto risolutive. Visto che di fumo di tabacco si continua a morire e neppure poco.
Lancet di questa settimana pubblica un rapporto costruito su dati (le fonti sono ben 2.818) del
Global Burden of Diseases, Injuries, and Risk Factors Study (GBD), che ha valutato l’effetto del fumo (in termini di mortalità e morbilità) in 195 nazioni, nei 25 anni che vanno dal 1990 al 2015.
Ad oggi nel mondo hanno ancora il ‘vizio’ del fumo il 25% dei maschi e il 5,4% delle femmine, anche se la prevalenza dei fumatori attivi ha fatto registrare una cospicua riduzione a partire dal 1990 (- 28,4% tra i maschi e -34,4% tra le femmine), risultando più marcata negli anni tra il 1990 e il 2005, che in quelli a seguire (2005-2015). Soltanto 4 Paesi hanno fatto registrare dei trend in controtendenza (Congo e Azerbaijan per i maschi, Kuwait e Timor-Leste per le femmine) tra il 2005 e il 2015, con un aumento dei fumatori.
Nel 2015, l’11,5% della mortalità totale (pari a 6,4 milioni di decessi) è risultata attribuibile al fumo e oltre la metà (52,2%) di questa strage si è consumata in appena 4 Paesi: Cina, India, USA e Russia).
Il fumo nel 2015 figurava nella top 5 dei principali fattori di rischio per DALY in 109 Paesi (nel 1990 era nei primi cinque posti di questa poco edificante classifica ‘solo’ in 88 Paesi), posizionandosi addirittura al secondo posto come causa di mortalità precoce e disabilità.
La riduzione della prevalenza dei fumatori mostra insomma un pattern assai eterogeneo sia per area geografica, che per livello socio-economico e sesso. E gli autori mettono in guardia dal non cullarsi sugli allori dei successi passati, in termini di controllo del tabacco e riduzione dei fumatori, soprattutto per quanto riguarda le donne dei Paesi a basso e medio indice socio-demografico (un indice che si basa sull’
income medio per persona, il livello di istruzione e il tasso di fertilità totale).
Una sfida cruciale in questo senso è rappresentata dal riuscire a prevenire sempre più che le persone si accostino alla sigaretta e allo stesso tempo a portare sempre più gente ad abbandonare il ‘vizio’. E’ sicuramente possibile fare di meglio e di più, ma questo richiede un rinforzo e un’implementazione delle politiche di controllo del fumo, che a loro volta implicano un maggior impegno politico a livello nazionale e globale, che vada oltre quello che ha portato ai successi degli ultimi 25 anni.
Maria Rita Montebelli