Oltre a fattori causali ambientali, ci potrebbe essere una componente genetica ereditaria dietro l’autismo. Alcuni studi sui gemelli hanno già in passato attribuito a questa componente fino per il 90% della responsabilità in quelli monozigoti (mentre è prossima allo 0 in quelli dizigoti). Ora, tuttavia, ricercatori del California Twin Study confermano una corresponsabilità della genetica, ma ne riaggiustano le proporzioni: i tassi di concordanza sarebbero più bassi di quanto fin qui ritenuto per i monozigoti e più alti per i dizigoti.
I risultati di questa nuova ricerca si fanno forti, rispetto a precedenti dati analoghi, di un campione più ampio di studio, di maggiore accuratezza diagnostica e di analisi più sofisticate sull’influenza genetica e ambientale.
I fattori in gioco, genetici e ambientali, restano da chiarire, e nelle analisi possono comunque rimanere fattori confondenti. Ma l’ipotesi che sembra rafforzarsi, anche in considerazione del fatto che l’autismo è più frequente nei gemelli che nei non gemelli, è che ad aumentare il rischio di questo disturbo dello sviluppo neurologico possano essere aspetti associati alle nascite gemellari che intervengono già nella vita fetale (potrebbe trattarsi di fattori come l’età materna, la prematurità o la fecondazione in vitro). Dunque, l’autismo e tutti gli “autism spectrum disorder” (ASD) potrebbero essere considerati, almeno in parte, disturbi della programmazione fetale. In sostanza, fattori di rischio connessi all’ambiente materno in cui si sviluppa il feto potrebbero esporre quest’ultimo a una maggiore probabilità di sviluppare l’autismo. L’aspetto positivo è che se questi fattori saranno identificati come modificabili, in futuro si potrebbe forse intervenire per ridurre la probabilità di autismo.
Tra i fattori ambientali che, interagendo con componenti genetiche, partecipano a qualche livello nella patogenesi degli ASD, particolarmente di rilievo sembrano essere le infezioni e l’assunzione in gravidanza di alcuni farmaci. In quest’ultimo caso, da tempo i sospetti gravano sugli antidepressivi assunti durante l’attesa, il cui uso tra l’altro è aumentato negli stessi anni nei quali sono cresciuti i casi di autismo (ma questo vale anche per i contaminanti ambientali).
Uno studio di popolazione condotto anch’esso in California punta l’indice in particolare sugli antidepressivi della classe degli inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRI). La serotonina e altri neurotrasmettitori compaiono nel primo trimestre di vita fetale nell’uomo e nei mammiferi e hanno effetti pronunciati sullo sviluppo cerebrale; una sottopolazione di circa il 25% dei bambini con ASD ha tra l’altro un fenotipo con iperserotoninemia e alcune mutazioni di trasportatori della serotonina sono state associate con ASD e disordini ossessivo-compulsivi. Nei soggetti con ASD peraltro sono frequenti disturbi dell’umore.
Nella ricerca californiana, confrontando 298 bambini con autismo con 1300 bambini controllo, e rispettive madri, si è osservato un rischio moderatamente aumentato di ASD associato con assunzione materna di antidepressivi SSRI nell’anno precedente il parto, rischio che risultava più marcato quando erano stati usati nel primo trimestre di gravidanza.
Gli autori tengono però a notare che questo potenziale rischio potrebbe controbilanciare quello del non trattamento di disturbi come stress e depressione nella gestante, che a loro volta possono avere un impatto neurochimico negativo sul feto; quindi raccomandano cautela nelle conclusioni, prima di ulteriori approfondimenti. Quanto ai possibili meccanismi d’interazione tra gli antidepressivi SSRI nel primo trimestre e i bambini con ASD, nell’editoriale, si richiamano soprattutto tre aspetti sull’influenza della serotonina sullo sviluppo del cervello fetale. Uno è riferito alla placenta come fonte di serotonina, che può essere prodotta dal triptofano materno; l’altro è che il proencefalo fetale accumula serotonina placentare in un periodo studiato nell’animale e corrispondente al primo trimestre gestazionale umano; infine che, essendo la placenta e il feto geneticamente uguali, mutazioni come quelle ricordate avrebbero un impatto sul cervello fetale dovuto a più complesse interazioni madre-placenta-feto, alla base della patogenesi del disturbo.
Elettra Vecchia