L’ipercolesterolemia familiare è una malattia genetica a trasmissione autosomica dominante; la prevalenza della forma omozigote è di 1 su 300.000 (ma sono dati in aggiornamento continuo); ma è la forma eterozigote, a preoccupare di più gli esperti, vista la sua numerosità (la prevalenza si aggira su un caso ogni 300 persone) e le ricadute in termini di malattie cardiovascolari. Il tratto clinico-laboratoristico caratteristico di questa condizione è infatti rappresentato dagli elevati valori di colesterolo LDL, il principale fattore di rischio cardiovascolare, la ‘madre’ di tutte le placche aterosclerotiche.
“Alcuni pazienti – afferma
Marcello Arca, segretario nazionale SISA (Società Italiana per lo Studio dell’Aterosclerosi) e professore associato di Medicina presso l’Università ‘La Sapienza’ di Roma) - presentano livelli davvero molto elevati di LDL , che possono addirittura arrivare a 1.500 mg/dl, come abbiamo osservato in un ragazzo con la forma omozigote della malattia. Questi pazienti sono esposti a valori elevatissimi di colesterolo LDL fin dalla nascita; studi condotti sul sangue del cordone ombelicale dimostrano infatti che i soggetti affetti da ipercolesterolemia familiare presentano già alla nascita livelli di LDL doppi rispetto ai soggetti normali. Questa esposizione precoce a livelli tanto elevati di LDL fa sì che in questi soggetti si assista ad un’accelerazione del danno vascolare. E’ un po’ la dimostrazione ‘naturale’ di tutte le conoscenze acquisite negli anni rispetto al ruolo del colesterolo nella genesi della placca aterosclerotica”.
Di fronte a livelli così esagerati di colesterolo LDL, anche le statine, farmaci che restano secondo gli esperti il più importante presidio terapeutico della storia della cardiologia, sono un’arma spuntata. Così, nelle forme più gravi l’unica terapia possibile finora è stata la cosiddetta LDL-aferesi, una sorta di dialisi alla quale vengono sottoposti questi pazienti 1-2 volte a settimana, per ‘scremare’ il loro sangue dal colesterolo in eccesso. Facile comprendere l’enorme disagio per i pazienti e i costi comportati da questa procedura.
Ma per questi pazienti il prossimo arrivo degli inibitori di PCSK9 potrebbe rappresentare l’affrancamento dall’aferesi, come dimostra anche lo studio ODYSSEY ESCAPE presentato a Roma nell’ambito del congresso della Società Europea di Cardiologia (ESC) e condotto su soggetti affetti da ipercolesterolemia familiare eterozigote (HeFH). I risultati di questo studio, pubblicati in contemporanea su
European Heart Journal dimostrano che l’aggiunta di alirocumab alla terapia anticolesterolo tradizionale ha prodotto una riduzione dei 50% dei livelli di LDL (contro il 2% del gruppo placebo); in questo modo è stato possibile ridurre il ricorso al trattamento di aferesi del 75%, rispetto al placebo.
I pazienti arruolati nello studio presentavano livelli basali medi di LDL di 181 mg/dl, nonostante fossero trattati con l’aferesi; dopo 6 settimane di trattamento con alirocumab, i 2/3 circa di questi pazienti non hanno più avuto bisogno di ricorrere alla ‘dialisi del colesterolo’. Sempre a 6 settimane dall’inizio dell’alirocumab, il livello medio di LDL nel gruppo trattato con inibitori di PCSK9 era sceso a 90 mg/DL (contro i 185 mg/dl del gruppo placebo).
“I risultati di questo studio – commenta
Patrick M. Moriarty, direttore dell’
Atherosclerosis and Lipoprotein Apheresis Center, University of Kansas Medical Center (USA) – suggeriscono un ruolo dell’alirocumab nel trattamento dei pazienti con HeFH sottoposti a regolare aferesi, vista la possibilità di ridurre la necessità di sottoporli a questo pesante trattamento. È il primo
trial clinico a dimostrare che l’alirocumab riduce la necessità di aferesi”.
Una terapia quella della LDL aferesi, che lungi dall’essere gradita dai pazienti perché invasiva e pesante anche come impegno temporale, è anche costosa: in media 100 mila dollari l’anno negli USA e 60 mila euro in Germania, dove i centri di aferesi sono circa 200 (negli USA sono una sessantina e i pazienti devono sobbarcarsi spesso anche lunghi spostamenti).
Il 93% dei pazienti trattati con alirocumab in questo studio ha presentato una riduzione di almeno il 50% dell’LDL; questa entità di riduzione si è osservata in genere a partire dalla sesta settimana di trattamento, rimanendo poi stabile fino alla fine dello studio, durato18 settimane.
Lo studio ha interessato 62 pazienti trattatati regolarmente con LDL aferesi (ogni 1-2 settimane) presso 14 centri in Germania e negli USA; l’86% dei pazienti del gruppo di controllo e il 90% di quelli trattati con alirocumab avevano una storia di coronaropatia. Dopo l’arruolamento i pazienti sono stati randomizzati alla terapia con alirocumab (1 iniezione sottocutanea ogni due settimane) o a placebo; nelle prime sei settimane tutti sono stati sottoposti ad una seduta di LDL di aferesi, come d’abitudine; poi, nelle successive 12 settimane, la frequenza delle sedute è stata ritarata sulla base dei valori di LDL.
Lo studio ODYSSEY ESCAPE, fa parte del programma di studi di fase III ODYSSEY, che riguarda un totale di 25 mila pazienti.
“Gli inibitori di PCSK9 – ricorda
Andrea Di Lenarda, presidente ANMCO (Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri) – sono farmaci straordinari e innovativi, anticorpi monoclonali che, in aggiunta alle statine, hanno la capacità di ridurre di un ulteriore 50% i livelli di LDL. Dal canto loro, le statine rimangono dei farmaci importantissimi che dobbiamo assolutamente continuare ad utilizzare in tutti i pazienti che hanno bisogno di ridurre i valori di LDL fino al 50%”.
La prova provata dell’efficacia degli inibitori di PCSK9 si avrà naturalmente solo quando verrà dimostrato che questi farmaci sono in grado di ridurre morbilità e mortalità cardiovascolare. E per valutare questo fondamentale
endpoint sono attualmente in corso 4 grandi studi. “Ma la storia passata – ricorda il professor
Francesco Romeo, presidente della SIC (Società Italiana di Cardiologia) – insegna, con le statine, che la riduzione dei livelli di colesterolo LDL determina un’importante riduzione di eventi cardiovascolari”.
Gli inibitori di PCSK9 non sono ancora rimborsati nel nostro Paese, ma potrebbero esserlo presto per i pazienti con FH non a target o resistenti alle terapie convenzionali e per i soggetti in prevenzione secondaria dopo una sindrome coronarica acuta, non a target o intolleranti alle statine. I soggetti candidabili a queste terapie innovative secondo queste indicazioni, nel nostro Paese potrebbero dunque essere circa 20-30 mila.
Maria Rita Montebelli