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QS Edizioni - lunedì 25 novembre 2024

Scienza e Farmaci

Prevenzione primaria eventi cardiovascolari in soggetti a rischio intermedio. Promosse le statine e ‘bocciata’ la terapia antipertensiva

di Maria Rita Montebelli
immagine 29 maggio - Un risultato a sorpresa quello prodotto dallo studio HOPE-3 e pubblicato sul NEJM, a firma di Salim Yusuf il guru mondiale dei trial e grande sostenitore della strategia ‘polypill’. A confornto la terapia con statine e la terapia antipertensiva con un’associazione sartano-idroclorotiazide. La prima strategia riduce il rischio di eventi nei 5,6 anni di follow up del 24%; la seconda non dà un risultato migliore del placebo, ad eccezione che nei soggetti con sistolica elevata
I numeri delle malattie cardiovascolari, uniti ai costi elevati delle cure e purtroppo alla scarsa aderenza ai regimi prescritti, più volte ha fatto invocare la soluzione della ‘polypill’, il 4-in-1 della prevenzione farmacologica cardiovascolare.
Facile a dirsi, molto meno a farsi. Per il pericolo di interferenze farmacologiche, per le diverse farmacocinetiche dei singoli componenti e tanti altri motivi. Primo tra il tutti il diverso ‘peso’ che i singoli farmaci giocano sulla riduzione del rischio.
 
Quasi a conferma della genuinità di questo dubbio, il New England Journal of Medicine di questa settimana pubblica i risultati del trial HOPE-3 (Heart Outcomes Prevention Evaluation) distribuiti su tre articoli e corredati di un editoriale.
 
HOPE-3 è uno studio in doppio cieco, randomizzato e controllato versus placebo, con disegno fattoriale 2 x 2,  che ha arruolato 12.705 soggetti (maschi ≥ 55 anni e femmine ≥ 60 anni) a rischio cardiovascolare intermedio, ma senza patologie cardiovascolari note al momento dell’arruolamento. Queste persone sono state randomizzate a ricevere una terapia ipocolesterolemizzante (rosuvastatina 10 mg/die) o placebo e una terapia antipertensiva (candesartan 16 mg/die + idroclorotiazide 12,5 mg/die) o placebo per un periodo medio di 5,6 anni. La pressione media all’arruolamento era 138.1/81.9 mm Hg, il livello di colesterolo LDL 127,8 mg/dl.
 
Il trattamento con rosuvastatina, che ha determinato una riduzione media di colesterolo LDL di 33,7 mg/dl,  ha prodotto una riduzione del 24% degli eventi cardiovascolari rispetto al gruppo di controllo, mentre la terapia antipertensiva non ha prodotto una riduzione significativa degli eventi rispetto al placebo, tranne che in un sottogruppo con sistolica basale superiore a 140 mmHg. Insomma ce n’è di che confermare alcune raccomandazioni attuali e di che rivederne alcune nelle prossime linee guida.
 
La performance della statina non sorprende più di tanto, poiché conferma i risultati di una metanalisi che in sostanza dimostrava come la riduzione di 1 mmol/L di LDL colesterolo si associasse ad una riduzione del 25% di eventi cardiovascolari in prevenzione primaria. E risultati dell’HOPE-3 confermano questo dato, portando così acqua al mulino delle linee guida AHA/ACC che adottano un approccio basato sul rischio cardiovascolare, piuttosto che sui livelli di LDL e supportando di fatto la validità della prescrizione delle statine in prevenzione primaria.
 
La vera sorpresa viene semmai dal versante ‘antipertensivo’ del trial
; la differenza assoluta dei valori pressori tra i trattati e il gruppo di controllo è stata dell’ordine di 6 mmHg per la sistolica e di 3 mmHg per la diastolica. Una riduzione non eclatante, ma neppure trascurabile che tuttavia sull’endpoint principale non ha lasciato segni. Con la sola eccezione di un sottogruppo prespecificato di pazienti con una sistolica basale superiore a 143,5 mmHg; in questo caso, la riduzione di eventi rispetto ai controlli è stata del 27%.
 
A cosa sia dovuto il flop sul fronte della terapia antipertensiva non è del tutto chiaro. Colpa di una posologia troppo bassa dei farmaci utilizzati? Colpa dell’idroclorotiazide scelto come farmaco partner del sartano, a scapito magari dell’amlodipina o del clortalidone? Va anche considerato il fatto che la popolazione arruolata per questo studio era a rischio cardiovascolare intermedio, cioè inferiore rispetto ad altri trial. C’è poi sempre la possibilità di un risultato nullo dovuto al caso Non è possibile escludere naturalmente che sul lungo periodo, al di là dei 5,6 anni di follow up, possa emergere un beneficio  in questi pazienti trattati. Sono alcune delle possibili ipotesi. Alle quali però l’HOPE-3 non può dare conferma evidentemente.
 
I risultati di questo complesso trial insomma suggeriscono che la rosuvastatina al dosaggio di 10 mg/die è decisamente efficace nel prevenire eventi cardiovascolari, a prescindere dai livelli di colesterolo LDL o di pressione iniziale; al contrario, il candesartan (16 mg/die) associato all’idroclorotiazide (12,5 mg/die) in una popolazione, come quella dello studio HOPE-3 a rischio relativamente basso risulta efficace solo nei soggetti con sistolica superiore a 140 mmHg. Non è possibile escludere che una terapia antipertensiva a dosaggi più elevati possa produrre un maggior beneficio. Stando ai risultati dello studio dunque, in una popolazione di soggetti a rischio intermedio e in un contesto di prevenzione primaria, la terapia di associazione statina-farmaci antipertensivi darebbe i migliori solo nei soggetti con sistolica elevata. Nei soggetti con sistolica non elevata, invece è la statina da sola a passare a pieni voti lo studio.
 
Maria Rita Montebelli
29 maggio 2016
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