Lo scorso agosto, forse sperando nella ‘distrazione’ della pausa estiva, l’editore Springer ha ritirato qualcosa come 64 articoli da 10 diverse sue pubblicazioni dopo che – si legge sul sito della Springer - ‘alcuni controlli editoriali hanno rilevato una serie di falsi indirizzi email e che successive indagini interne hanno scoperto dei rapporti di
peer review fabbricati ad arte’.
Ma il problema non è nuovo e c’era già stato un importante precedente. Qualche mese prima, BioMed
Central (anche questo di proprietà Springer) aveva provveduto a fare la
retraction di altri 43 articoli. Per lo stesso motivo. Giudizi dei revisori falsificati o meglio costruiti a tavolino dalla stessa persona.
La ‘nuova tendenza’, come la chiama
Alison McCook nel blog Retraction Watch, sta evidentemente diventando una moda.
‘Moda’ inaugurata - ricorda
Charlotte Haug in un articolo pubblicato sull’ultimo numero di
New England Journal of Medicine - dal sud-coreano
Hyung-in Moon tre anni fa, quando il ricercatore, messo alle strette, fu costretto ad ammettere che si era inventato un numero imprecisato di indirizzi di posta elettronica, per potersi scrivere da solo i giudizi sui lavori che aveva sottomesso alle riviste scientifiche.
Ed ecco il sistema escogitato da Moon, studioso di piante medicinali. Il ricercatore suggeriva ai giornali nomi di studiosi da coinvolgere per fare la revisione delle sue pubblicazioni, fornendo i loro indirizzi
email. Ovviamente era lui o i suoi ‘compari’ a ricevere queste email. All’editore non sembrava vero: tutti questi ricercatori fantasma accettavano subito di buon grado di rivedere i paper di Moon, senza dover essere sollecitati in alcun modo e addirittura inviando il loro giudizio (sempre assolutamente favorevole) spesso nell’arco di ore rispetto a quando era arrivata loro la richiesta.
Ma qualcuno ha cominciato a nutrire dei sospetti. Fatte delle indagini e scoperto il trucchetto, il furbetto di turno è stato messo alle strette. La sua confessione ha prodotto il ritiro di 28 delle sue ricerche ed è costata la testa al direttore di uno di questi giornali, che si è dimesso.
Sempre restando in estremo oriente, un altro ricercatore disinvolto, questa volta un ingegnere di Taiwan,
Peter Chen, aveva fatto un’altra gran bella pensata. Si era creato un cerchio di
peer review e citazioni, fatto di ben 130 falsi indirizzi email e altrettante false identità, per ottenere ‘recensioni’ favorevoli. Tutto è filato liscio fino a quando l’editor di una rivista della
Sage Publication ha cominciato a mangiare la foglia e deciso di vederci chiaro. Il frutto della sua indagine certosina ha portato alla
retraction di 60 articoli nel luglio del 2014.
Nell’arco di questi tre anni sarebbero oltre 250 gli articoli pubblicati, poi ritirati per false revisioni, un numero che rappresenta il 15% circa di tutti gli articoli ‘cancellati’ dalla memoria di PubMed e della rete.
E comunque i ricercatori fraudolenti non sembrano aver perso il vizietto se alla fine del 2014 BioMed Central e altri editori hanno messo in allerta il Committee on Publication Ethics (COPE) contro nuovi tentativi di frode sulle revisioni dei manoscritti. Nel gennaio 2015 il COPE ha pubblicato sul suo sito la notizia che tutto questo sistema di falsificazione delle revisioni potrebbe addirittura essere gestito da agenzie ‘specializzate’ che non si limitano ad assistere gli autori nella redazione degli articoli scientifici, ma addirittura offrono agli stessi autori, ovviamente a pagamento, una serie di revisioni certamente favorevoli. Insomma un prodotto chiavi in mano.
Ovviamente – fa notare la Haug – questo sistema continuerà a funzionare se i giornali insisteranno nel chiedere agli autori di fornire i nomi di possibili revisori per le loro pubblicazioni. Una pratica piuttosto comune nell’ambiente perché in ambito superspecialistico, gli autori sono quelli che meglio di altri conoscono i colleghi in grado di dare un giudizio qualificato su quel tipo di ricerca. Non va dimenticato poi che l’editore è ben contento di non dover fare continui solleciti a revisori lenti, pigri o svogliati. Infine, giornali e case editrici sono sempre più multinazionali e difficilmente dunque conoscono direttamente i singoli ambiti scientifici e le persone che se ne occupano. Avere qualcuno che ti suggerisce i nomi dei revisori‘giusti’, risparmia un sacco di tempo e grattacapi.
Certo, alla luce di tutti questi scandali, diversi giornali stanno abbandonando la pratica di chiedere all’autore di suggerire lui dei peer reviewer. Ma forse neppure questo basta a garantirsi dalle frodi.
La scorsa primavera, l’editore Hindawi ha deciso di andare a scartabellare tutte le revisioni, pertinenti ad articoli pubblicati sulle sue riviste, dal 2013 al 2014. La procedura di revisione di questo editore si basa prevalentemente sui membri del board editoriale e degli editor ‘ospiti’ dei numeri speciali, ai quali viene chiesto di indicare dei peer reviewer, senza operare alcun controllo su queste figure. Anche in questo caso, è venuto a galla che tre editor occasionali avevano falsificato identità a fabbricato email per fornire revisioni fasulle. Risultato, la cancellazione ‘con onta’ di 32 pubblicazioni.
La Haug invita dunque a riflettere sulla sicurezza dei sistemi di gestione elettronica dei manoscritti, a facile portata di hacker e ricorda come Moon e Chen abbiano sfruttato una falla di ScholarOne. Le email inviate ai ricercatori per invitarli a rivedere un manoscritto includono le informazioni per il log-in, quindi chiunque riceva questi messaggi può entrare nel sistema.
La pressione a pubblicare tanto, in maniera veloce e possibilmente su giornali ad elevato impact factor è particolarmente sentita in Cina; non è un caso dunque che proprio da questo Paese arrivino i sistemi più ingegnosi per aggirare le barriere del sistema di peer-review.
Ma naturalmente il problema non è confinato ai Paesi asiatici. Ed è forse arrivato il momento di porvi rimedio.
Maria Rita Montebelli