L’uomo è un animale sociale, sentenziava Aristotele, mentre a distanza di oltre due millenni, i Beatles in un loro celeberrimo pezzo, celebravano la malinconia triste e solitaria di Eleanor Rigby, che muore nell’indifferenza generale dopo aver passato la vita a raccogliere il riso e la felicità, lasciati sul sagrato della sua chiesa dagli sposi. Quello della solitudine è un fenomeno in triste aumento nella nostra società sempre più formata da
single e da coppie senza figli. Una condizione che pone enormi problemi di carattere socio-assistenziale, soprattutto negli anni a venire. Ma non solo.
Un articolo pubblicato su
Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS) rivela infatti che la solitudine, non rappresenta solo uno
status sociale problematico, ma un vero e proprio fattore di rischio per la salute, che aumenta il rischio di morte prematura del 14%.
Secondo
John Cacioppo, psicologo dell’Università di Chicago esperto in questa materia, l’isolamento sociale, in particolare negli adulti e negli anziani, scatena una serie di risposte psicologiche, dei segnali di stress del tipo
fight-or-flight, che da ultimo andrebbero ad influenzare la produzione dei globuli bianchi.
Lo studio pubblicato su PNAS, al quale hanno preso parte anche
Steven W. Cole della UCLA e
John P. Capitanio del California
National Primate Research Center dell’ Università di California(Davies), ha esaminato gli effetti della solitudine sull’uomo e sui primati (
Macacus rhesus).
Lo stesso gruppo di ricerca in passato aveva messo in luce un legame tra la solitudine e un fenomeno da loro indicato come ‘risposta trascrizionale conservata all’avversità’ (
conserved transcriptional response to adversity, CTRA). Il fenomeno in questione consiste nell’aumentata espressione dei geni coinvolti nell’infiammazione e nella ridotta espressione di quelli coinvolti nelle risposte anti-virali. Il che porta alla conclusione che le persone sole presentano una risposta immunitaria meno valida e ‘facciano’ più infiammazione delle persone che vivono una ricca vita di relazione.
I ricercatori americani hanno esaminato l’espressione genica nei leucociti, cellule del sistema immunitario implicate nelle difese dell’organismo contro l’attacco di virus e batteri. Come previsto, i leucociti dei solitari, fossero essi scimmie o umani, presentavano il fenomeno CTRA, cioè un’aumentata espressione dei geni dell’infiammazione e una ridotta espressione di quelli implicati nelle risposte contro i virus. In più però, lo studio pubblicato su PNAS ha aggiunto una serie di nuovi ‘
bit’ di informazione agli effetti che la solitudine provoca sull’organismo.
Innanzitutto, Cacioppo e colleghi hanno dimostrato che la solitudine permette di prevedere il futuro dell’espressione dei geni coinvolti nel fenomeno CTRA, a distanza di un anno e oltre. A sorpresa, i ricercatori hanno dimostrato anche il contrario e cioè che l’espressione dei geni CTRA fosse in grado di prevedere uno stato di isolamento sociale, verificatosi a distanza di un anno o oltre. Insomma è come se l’espressione dei geni CTRA nei leucociti e la solitudine fossero legati a doppio filo in una relazione di perfetta reciprocità; dove c’è l’uno, prima o poi compare anche l’altro. E viceversa. Anche senza che fattori di confusione quali depressione, supporto sociale o stress vengano ad intromettersi in questo rapporto esclusivo.
Un’altra
tranche della ricerca, condotta sui macachi, è andata a indagare i processi cellulari alla base del legame tra l’esperienza sociale della solitudine e l’espressione dei geni CTRA. I macachi utilizzati per queste osservazioni avevano ricevuto l’etichetta comportamentale di ‘super-socialmente isolati’. Così come la loro controparte umana, anche i primati solitari presentavano un’esaltata attività CTRA, oltre che elevate concentrazioni di norepinefrina, il neurotrasmettitore principe delle risposte ‘
fight-or-flight’.
E’ noto da precedenti ricerche che la norepinefrina è in grado di stimolare le cellule staminali del midollo a produrre una tipo particolare di cellula immunitaria, il monocita immaturo, che presenta un’esaltata espressione di geni dell’infiammazione e una scarsa espressione di geni implicati nelle risposte anti-virali. Anche in questo studio, sia i primati che gli umani, accomunati dalla solitudine, presentano elevati livelli di questi monociti nel sangue.
La produzione di queste cellule particolari nei macachi si aveva anche quando gli animali venivano esposti a situazioni sociali blandamente stressanti, come l’essere messi nella stessa gabbia con altri macachi sconosciuti.
Questa parte dello studio ha dunque evidenziato che l’espressione dei geni CTRA viene amplificata nel
pool dei globuli bianchi, attraverso l’aumentata produzione di monociti immaturi.
Per finire, i ricercatori americani sono riusciti a dimostrare che questo
shift verso la produzione di monociti con fenomeno CTRA è realmente alla base di effetti indesiderati sulla salute.
In un modello animale (scimmia) di infezione virale, l’alterata espressione dei geni ‘anti-virus’ nelle scimmie solitarie consentiva al virus dell’immunodeficienza delle scimmie (l’equivalente dell’HIV nell’uomo) di svilupparsi più rapidamente sia nel sangue che nel cervello.
Mettendo insieme tutti i pezzi del
puzzle, queste evidenze portano a disegnare un modello meccanicistico nel quale la solitudine produce un segnale di stress del tipo ‘fight-or-flight’, che determina un aumentata produzione di monociti immaturi, che a sua volta porta ad un’aumentata espressione dei geni dell’infiammazione, ‘azzoppando’ al contempo le riposte anti-virali.
I messaggi di pericolo attivati a livello cerebrale dalla solitudine, come ricaduta finale hanno insomma quella di influenzare la produzione dei globuli bianchi. A sua volta, l’esaltata produzione di monociti immaturi può sia ‘propagare’ la solitudine, che contribuire alle ricadute negative sullo stato di salute di un individuo socialmente isolato.
La ricerca pubblicata su PNAS è stata supportata dai
National Institutes of Health.
Maria Rita Montebelli