Un cinquantenne con diabete e senza storia di malattie vascolari morirà 6 anni prima di una persona non affetta da questa condizione. Il diabete infatti "scippa" molti anni di vita; basti pensare che il rischio di mortalità cardiovascolare associato al diabete è oltre il doppio di quello della popolazione non diabetica e che anche il rischio di mortalità per tutte le cause è quasi raddoppiato rispetto alla popolazione generale. Il 70% circa degli ultra-65 enni con diabete arriva al decesso per una malattia cardiovascolare.
Per questo sono stati fatti molti sforzi per individuare una strategia terapeutica in grado di ridurre questo eccesso di mortalità cardiovascolare nei diabetici. Purtroppo però, come dimostra anche una metanalisi degli studi ADVANCE, UKPDS, ACCORD, VADT (27.049 pazienti in totale) la terapia ‘aggressiva’ del diabete, rispetto ad un trattamento più ‘rilassato’, ha dato finora risultati un po’ deludenti sia sul fronte degli eventi (ricoveri da scompenso cardiaco, rischio di infarto e rischio di ictus), che sul fronte della mortalità cardiovascolare .
Negli ultimi anni sono arrivati i risultati degli studi di
safety cardiovascolare relativi ad alcuni dei nuovi farmaci anti-diabete, voluti dalle agenzie regolatorie internazionali. EXAMINE, SAVOUR, TECOS e ELIXA hanno dimostrano una buona sicurezza di DDP-4 inibitori e GLP-1 agonisti. Questi farmaci cioè non aumentano il rischio di eventi o di mortalità cardiovascolare, rispetto al placebo. Neutralità dunque rispetto al placebo, ma nessun vantaggio sul fronte cardiovascolare.
Un’importante novità viene invece dal congresso europeo di diabetologia (EASD), dove sono stati presentati i risultati dell’EMPA-REG OUTCOME, lo studio di
outcome cardiovascolare di empagliflozin, pubblicato in contemporanea sul
New England Journal of Medicine.
Il
trial, randomizzato in doppio cieco e controllato contro placebo è stato condotto su 7.020 pazienti con diabete di tipo 2, arruolati in tutto il mondo. Il suo obiettivo era di esaminare gli effetti a lungo termine di empagliflozin, in aggiunta alla terapia anti-diabetica standard, sulla morbilità e mortalità cardiovascolare nei pazienti con diabete di tipo 2 ad elevato rischio di eventi cardiovascolari.
La popolazione dello studio. La popolazione di EMPA-REG era al 70% di sesso maschile, reclutata in tutto il mondo, con una prevalenza di europei (41%). L’età media dei partecipanti era di 63 anni e il loro BMI di circa 30. L’emoglobina glicata all’inizio dello studio era intorno all’8%. Metà dei pazienti aveva una durata di diabete superiore a 10 anni. La pressione era discretamente controllata (in media 135/76 mmHg) e il filtrato glomerulare medio era di circa 74 ml/min (1/4 della popolazione aveva un eGFR < 60 ml/min).
I farmaci della terapia anti-diabetica di base più utilizzati sono stati: metformina (circa il 74%), sulfoniluree (oltre il 42%), insulina (quasi metà della popolazione). Metà dei partecipanti aveva una storia di infarto e il 10% presentava scompenso cardiaco. Oltre il 95% di loro era in terapia antipertensiva (oltre l’80% con un ACE-inibitore/sartano, il 65% con un beta-bloccante, oltre il 40% con diuretici e 1 su 3 con un calcio antagonista). Tre su 4 erano in terapia con statine e oltre l’82% con aspirina. La durata media del trattamento è stata di 2,6 anni, mentre il periodo di osservazione totale del
trial è stato di 3,1 anni.
I risultati dello studio. Endpointprimario dello studio era un composito di tre MACE (
major adverse cardiac events): mortalità cardiovascolare, infarto del miocardio non fatale, ictus non fatale); al termine dello studio, nel gruppo trattato con empagliflozin questo è risultato ridotto del 14% (p = 0,0382) rispetto al gruppo di controllo e le curve relative ai due gruppi cominciano a separarsi già dopo appena 3 mesi di trattamento, dato molto inusuale per un
trial cardiovascolare. Nello studio sono stati utilizzati due dosaggi di empagliflozin, 10 mg e 25 mg, che non hanno prodotto risultati diversi sugli
outcome cardiovascolari.
Andando ad esaminare le singole voci dell’
endpoint composito primario, l’incidenza cumulativa di mortalità cardiovascolare, nel gruppo trattato con empagliflozin è risultata ridotta del 38% (p < 0,0001).
I ricoveri per scompenso cardiaco, nel gruppo trattato con empagliflozin sono risultati ridotti del 35% (p = 0,0017). Molto positivo infine è stato anche il risultato della mortalità per tutte le cause, ridotta del 32% (p = 0,0001) nei pazienti trattati con empagliflozin.
All’annuncio di questi dati, fatto da
Silvio Inzucchi, professore di medicina a Yale, la platea dei diabetologi del congresso dell’EASD ha tributato un lungo applauso a questi risultati storici.
Non sono state invece rilevate differenze statisticamente significative nelle altre due voci dell’
endpoint primario: l’HR per l’infarto non fatale è 0,87 (p 0,2189), mentre quello per l’ictus non fatale è 1,24 (p 0,1638).
Visto questo piccolo
alert di
safety sull’ictus non fatale, gli autori dello studio sono andati ad esaminare in dettaglio l’insieme di ictus fatali e non fatali (popolazione
intent-to-treat: HR 1,18 con p 0,2567), arrivando alla conclusione che la differenza numerica fosse stata ampiamente prodotta da eventi occorsi almeno 30 giorni dopo la sospensione del trattamento.
Ripetendo l’analisi ‘
on-treatment’ (cioè escludendo gli eventi occorsi > 30 giorni dopo l’ultima assunzione del farmaco in studio e i pazienti che avevano assunto empagliflozin per meno di 30 giorni), l’HR si è ridotto a 1.04 (p 0,7849).
Empaglifozin ha mostrato infine un effetto essenzialmente neutro sull’angina instabile.
Sicurezza and tollerabilità. In questa popolazione di pazienti con diabete di tipo 2 ad elevato rischio cardiovascolare, l’empagliflozin è risultato ben tollerato e non ha prodotto effetti indesiderati gravi.
Questi sono stati per lo più infezioni genitali, soprattutto da miceti (presentate da 1 paziente su 20), più frequenti tra le donne; ma questo effetto indesiderato raramente ha portato alla sospensione del trattamento. Non è stato osservato invece un aumento di infezioni delle vie urinarie.
Non sono stati osservati invece, rispetto al placebo né un eccesso di casi di chetoacidosi, né di fratture.
Implicazioni per la pratica clinica. L’empagliflozin ha prodotto una riduzione dell’emoglobina glicata senza aumentare il rischio di ipoglicemia, ridotto il peso e la pressione arteriosa, determinato un piccolo aumento di colesterolo LDL e HDL.
L’aumento delle infezioni genitali, causato dal farmaco, è risultato nel complesso ben tollerato.
Sul fronte degli
endpoint cardiovascolari, empagliflozin ha ridotto i ricoveri per scompenso cardiaco del 35%, ha ridotto la mortalità cardiovascolare del 38% e ha migliorato la sopravvivenza globale, riducendo la mortalità per tutte le cause del 32% e ridotto il rischio di un MACE a 3 punti del 14%.
Nello studio sono stati utilizzati due dosaggi di emagliflozin il 10 e il 25 mg, che hanno prodotto riduzioni della stessa entità sulla mortalità cardiovascolare e per tutte le cause e ridotto i ricoveri per scompenso cardiaco.
“Ma per mettere nella giusta prospettiva l’entità di questi risultati – ha spiegato il primo autore dello studio
Bernand Zinman (nella foto), Lunenfeld-Tanenbaum Research Institute, Toronto (Canada) - può essere utile confrontare i NNT (
Number Needed to Treat, cioè il numero di pazienti che è necessario trattare per risparmiare un caso di morte) di EMPA-REG con quelli di altri importanti
trial del passato, condotti su una popolazione di pazienti ad elevato rischio cardiovascolare.
Per la simvastatina il NNT è 30 (per 5,4 anni di durata dello studio ‘4S’); per il ramipril il NNT è 56 (nei 5 anni di durata dello studio ‘HOPE’); per empagliflozin, il NNT è 39 nei 3 anni di durata dello studio EMPA-REG.
In altre parole – conclude Zinman - è necessario somministrare empagliflozin per tre anni a 39 pazienti, per risparmiare un decesso da cause cardiovascolari.
Su 1000 pazienti con le caratteristiche di quelli dello studio EMPA-REG, trattati per 3 anni, l’empagliflozin andrebbe dunque a salvarne 25 dalla morte e risparmierebbe 14 ricoveri per scompenso cardiaco, al prezzo di 53 infezioni genitali in più”.
Maria Rita Montebelli