Grazie ai progressi delle cure oncologiche, il tumore rappresenta ormai per molti una parentesi più o meno lunga, al di là della quale c’è comunque la vita, fatta anche di lavoro e di famiglia. L’esercito dei
survivor è di anno in anno più nutrito e questo sta facendo emergere nuovi bisogni e nuovi sogni da tradurre in realtà. Come quello di diventare genitori, una volta superata la ‘parentesi’ cancro. Il 3% delle neoplasie femminili si verifica tra i 18 e i 39 anni. Sono dunque 5.000 le donne che ogni anno devono confrontarsi con un tumore in età riproduttiva. Di queste almeno 1.500 sarebbero interessate a realizzare un progetto di maternità, dopo il cancro.
Per gli uomini il discorso di mantenere una possibilità riproduttiva è stato affrontato già da molti anni e la crioconservazione dello sperma è una pratica ormai quasi routinaria, anche perché facile da realizzare, a costi contenuti. Diverso il discorso per le donne, per le quali la preservazione della fertilità non è ancora un passaggio scontato, né abituale, prima di affrontare i trattamenti anti-tumorali.
Una realtà dolorosa, che crea oltretutto una grave asimmetria, una vera e propria discriminazione di genere, che le associazioni dei pazienti stanno cercando di correggere. E l’Italia, una volta tanto, è capofila in questa rivendicazione del diritto a diventare madri dopo un tumore.
L’AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica) lo scorso anno ha messo a punto delle linee guida
ad hoc, influenzando in questo anche la prestigiosa associazione degli oncologi americani (ASCO) che sta rivedendo le proprie linee guida in materia, ispirandosi a quelle dei colleghi italiani.
Non tutte le pazienti oncologiche in età riproduttiva possono accedere alle tecniche di preservazione della fertilità, vuoi per la natura stessa del tumore (es. tumore dell’ovaio), vuoi per l’ormono-sensibilità del cancro che progredirebbe con i trattamenti anti-sterilità. Fatte salve queste eccezioni, le donne affette da tumore, candidate alla preservazione della fertilità sono circa 3.000 l’anno in Italia; di queste una metà sarebbero interessate ad accedere a queste metodiche, che consistono nel trattamento con LHRH analoghi e nella raccolta e crioconservazione degli ovociti, prima della chemioterapia.
Il cancro della mammella e i linfomi sono le neoplasie più frequenti nelle giovani donne. Rappresentano il 60% di tutti i tumori al di sotto dei 40 anni e vengono trattati nella maggior parte dei casi con trattamenti chemioterapici potenzialmente tossici per la funzione ovarica. Per le donne interessate da queste neoplasie, ricorrere a queste tecniche ormai consolidate per prevenire l’infertilità, consenti di conservare il sogno nel cassetto di diventare mamme, una volta guarite.
“Queste tecniche – spiegano la professoressa
Lucia Del Mastro, membro del Consiglio Direttivo Nazionale dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM), e il dottor
Fedro Peccatori, direttore dell’Unità di Fertilità e Procreazione dell’Istituto Europeo di Oncologia (IEO)
- che possono essere entrambe applicate alla stessa persona, offrono un tasso di successo (cioè di possibilità di gravidanza) dal 30 al 50% a seconda dell’età della donna, dei trattamenti chemioterapici ricevuti e del numero di ovociti conservati”.
Il trattamento con LHRH analoghi mette a riposo le ovaie e le protegge dagli effetti tossici della chemioterapia. Gli studi clinici dimostrano che le donne sottoposte a questo trattamento vedono dimezzarsi il rischio di rimanere sterili dopo la chemioterapia. “Il congelamento di 10 ovociti – proseguono gli esperti - offre il 30% di probabilità di diventare madri”.
Il costo complessivo per il trattamento farmacologico con LHRH delle donne che possono averne bisogno per questa indicazione, viene stimato intorno a 77.000 euro/anno per il Servizio sanitario nazionale; se tutte le pazienti candidate alla preservazione della fertilità si sottoponessero inoltre alla crioconservazione degli ovociti, la spesa totale complessiva ammonterebbe a circa 1,5 milioni di euro. Ma è d’obbligo parlarne al condizionale, perché allo stato attuale questi trattamenti sono a totale carico delle dirette interessate. Ed è qui che si innesta l’intervento delle associazioni dei pazienti.
“Molte donne, ricevuta la diagnosi -
Elisabetta Iannelli, segretario della FAVO - ad oggi non ricevono nessuna forma di indicazione su come tutelarsi per un futuro di maternità. Vent’anni fa non ci si poneva il problema della vita ‘dopo’. Oggi, grazie anche a tutte le buone terapie che abbiamo, l’attenzione è puntata anche sulla progettualità futura, al di là del cancro e quindi ai due cardini fondamentali della vita che sono il lavoro e la famiglia. Purtroppo le risposte del SSN a questo proposito sono ancora scarse: il costo dei farmaci è a completo carico delle pazienti, i percorsi clinico-assistenziali non sono stati ancora definiti e manca del tutto un osservatorio nazionale che si occupi del problema”.
Quali passi fare dunque per restituire questo diritto alle donne con tumore? “ Innanzitutto vanno modificate le due Note dell’Agenzia Italiana del Farmaco – chiede
Elisabetta Iannelli - riconoscendo l’indicazione ‘prevenzione dell’infertilità nelle pazienti oncologiche’ alle gonadotropine necessarie alla stimolazione e alla raccolta di ovociti (Nota 74), oltre che agli analoghi LHRH che proteggono la funzione ovarica durante la chemioterapia (Nota 51). Sono trattamenti costosi per cui il medico è costretto, sotto sua responsabilità, a prescriverli attraverso un’interpretazione estensiva delle indicazioni, per evitare che siano pagati dalle pazienti. Una riscrittura delle due Note AIFA consentirebbe a queste pratiche terapeutiche diffuse ed efficaci di uscire dalla semi-clandestinità in cui sono mantenute”.
Un problema questo che potrebbe tuttavia avere i giorni contati. Nel corso dell’incontro “Prevenire la sterilità e conservare la fertilità nelle donne malate di cancro”, tenutosi ieri al Senato, l’On.
Pierpaolo Vargiu, presidente della XII Commissione Affari Sociali della Camera ha annunciato che è in corso un riesame dell’AIFa sull’ampliamento dell’indicazione di questi trattamenti, includendo la preservazione della fertilità nelle donne con tumore. Questo consentirebbe ai medici di offrire ad un maggior numero di donne questo tipo di trattamenti, che uscirebbero così dalla semi-clandestinità attuale e diventerebbero a carico dello Stato.
“Abbiamo chiesto inoltre – ricorda la
Iannelli – che vengano previsti dei percorsi clinico-assistenziali, in modo che alla donna che riceve questa diagnosi, venga detto a chi e dove deve rivolgersi per fare questi trattamenti. Abbiamo scritto diverse volte al Ministero della Salute che ci ha assicurato l’impegno del Ministro su questo punto e di aver portato la questione all’attenzione del Consiglio Superiore di Sanità, che nel frattempo si è insediato”.
“È necessario implementare percorsi dedicati per la prevenzione della infertilità nelle pazienti oncologiche – sostiene il dott.
Cristofaro De Stefano, direttore dell’Unità di Fisiopatologia della riproduzione e sterilità di coppia dell’Ospedale ‘San Giuseppe Moscati’ di Avellino - in tutte le Regioni italiane con prestazioni riconosciute dal Sistema Sanitario Nazionale e attraverso strutture multidisciplinari (istituti oncologici, università, ospedali, strutture territoriali e centri di Procreazione Medicalmente Assistita), che diano vita ad una rete di centri di Oncofertilità in grado di rispondere tempestivamente (entro 24 ore) alle esigenze delle pazienti.”
“Istituzioni, medici e pazienti – auspica il dottor
Peccatori - devono sedersi a un tavolo comune per definire le priorità sanitarie, valutandone evidenze scientifiche e sostenibilità. Nel caso in questione è in gioco un diritto sancito dalla costituzione, quello alla genitorialità. La richiesta delle giovani pazienti è chiara: lasciateci una speranza di maternità oltre il cancro, così come definito dalle più recenti ricerche scientifiche. La risposta delle Istituzioni dovrebbe essere altrettanto rapida e consequenziale. Il problema esiste e la soluzione non può essere lasciata solo alla buona volontà dei singoli”.
“Grazie al lavoro congiunto tra le associazioni di volontariato (FAVO - Federazione italiana delle Associazioni di Volontariato in Oncologia, ANDOS - Associazione Nazionale Donne Operate al Seno, AIMaC – Associazione Italiana Malati di Cancro, Salute Donna)e l’AIOM, che ci ha dato anche tutti gli elementi per comprendere quali potessero essere gli strumenti per dare una risposta a questo bisogno di progettualità – conclude
Elisabetta Iannelli - siamo riusciti a dare un contributo che darà buoni risultati. Sapere infatti, nel momento in cui sto iniziando una chemioterapia, che potrò un giorno avere una vita normale, e che potrò anche progettare una gravidanza, aiuta anche a combattere oggi la malattia.”
Maria Rita Montebelli