È stato un confronto interreligioso e interdisciplinare tra medici di credo diverso ed esponenti religiosi dell’ebraismo, del cattolicesimo e dell’islam quello che si è svolto stamattina presso il Policlinico Universitario “A. Gemelli”.Un confronto dal titolo “
Interreligious dialogue on the End of Life” dove le tre religioni monoteiste hanno ribadito il loro “no” all’eutansia, al suicidio assistito ma anche “no” all’accanimento terapeutico perché curare non significa prolungare le sofferenze.Anche se poi chi si è alternato al microfono ha riconosciuto la difficoltà a volte di stabilire la linea di confine tra cura e accanimento.
È stato dunque un dialogo tra esperienze scientifiche, umane e religiose, un incrocio di competenze e professionalità. “Il comportamento dell’uomo – ha riferito
Riccardo Di Segni, Rabbino Capo di Roma –è sottoposto a delle sfide importanti dovute soprattutto al progresso tecnologico. Si deve decidere in un ambito tecnologico di pochi anni di cose alle quali l’umanità è giunta dopo secoli di riflessione e di comportamento”.
Siamo d’accordo, ha continuato Di Segni “nel dire no all’accanimento ma qual è la linea sottile che separa quello che il medico deve fare, da quello che se non fa può incappare in una denuncia per omissione?” In questo confronto c’è un accordo sostanziale tra le religioni “su principi fondamentali. Nessuno ha detto l’eutanasia è permessa, al contrario. In questa sala però, perché se usciamo troviamo tanta gente che invece sull’eutanasia ha posizioni diverse. Ci sono sistemi legislativi in Europa che già la consentono. La convergenza c’è quindi su questioni fondamentali, non su questioni secondarie come il togliere e il sospendere liquidi e alimentazione. Oppure sul fatto che il trattamento sia naturale piuttosto che cruento, pensiamo all’introduzione della Peg. O ancora tra un trattamento continuo (che non può essere interrotto) e uno sporadico? Qui il dibattito si apre”.
“Il fine vita è qualcosa che tutti sentiamo come vicino. In Israele abbiamo fatto una legge su questo dopo due anni di discussioni, una legge molto articolata, con i suoi 147 paragrafi è la legge più dettagliata al mondo in materia”. Così
Avraham Steinberg,
Shaare Zedek Medical Center, di Gerusalemme, Israele. “Il dilemma del fine vita non è solo del mondo medico-scientifico, è anche questione che appartiene all’aspetto sociale al punto che la decisione va oltre la competenza medica. Noi – ha spiegato il medico israeliano – abbiamo discusso per due anni prima di approvare la legge e discutere degli aspetti etici. Perché non tutti sono d’accordo nel ritenere che la vita sia un valore assoluto, è importante ma non assoluto. Stanno emergendo sempre più posizioni per le quali l’autodeterminazione e l’autonomia nelle scelta dovrebbero guidare le scelte mediche”. In sostanza ha concluso Avraham Steinberg “la legge israeliana ha cercato di trovare un punto di sintesi tra il valore della vita e il principio di autodeterminazione pur negando l’eutanasia attiva e il suicidio assistito”.
Fekri Abroug, dell’Università di Monastir, Tunisia, medico di religione islamica ha riconosciuto come anche nei paesi islamici “si discute del fine vita. Il tema è presente tra i medici, specie tra chi come me opera nelle terapie intensive”. Ribadendo il no all’eutanasia ha ricordato che “l’Etica islamica è una emanazione del Corano. I principi bioetici sono variabili. Come la libertà per le donne l’applicazione della bioetica dipende dai Paesi dove viene praticata”.
Yahya PallaviciniVicepresidente della Coreis (Comunità Religiosa Islamica) Italiana ha affermato che la “sacralità della vita è insindacabile. Il suicidio per l’Islam è inaccettabile. Dio è colui che dà la vita e la morte. In Lui c’è l’inizio e la fine”. Non sono un male, ha continuato l’Imam, “la vita, la morte e neanche la malattia. Perché tra le responsabilità di questo mondo c’è anche il dovere di affrontare la malattia e il curarla”.
L'Islam vieta dunque l’eutanasia, considerandola un omicidio commesso dal medico, anche se questi risponde ad un’esigenza del paziente e ha l'intento di abbreviargli la sofferenza. È però lecito lasciar morire il paziente in modo naturale, senza somministrargli farmaci pretestuosi o allungargli inutilmente la vita se non c’è speranza, tranne le medicine che alleviano il dolore o calmano la crisi.
“Il cristiano – ha detto
Alberto Giannini, Terapia Intensiva Pediatrica Fondazione Irccs Ca’ Granda - Ospedale Maggiore Policlinico, Milano – dovrebbe agire come se ha la Bibbia in una mano e il giornale nell’altra. Quindi attenzione alla parola di Dio e consapevolezza sulla realtà. Abbiamo la morte come confine e con questa dobbiamo fare i conti. Il nostro paradosso è che mentre la medicina sembra offrire possibilità infinite la pratica clinica è governata dai limiti. La dimensione del limite è influenzata dall’imperativo tecnologico. Ovvero la tendenza per i medici ad utilizzare tutto quello che hanno a disposizione per il semplice fatto che sono stati formati ad utilizzarlo”.
“Dobbiamo però essere convinti che non possiamo soddisfare qualunque richiesta. C’è un limite di efficacia clinica, la mortalità può essere ridotta non certo abilita. E poi c’è un limite di senso, per cui qualunque azione deve essere scandagliata alla ricerca di un senso sul piano etico.
Giannini ha poi svolto una riflessione sulla proporzionalità delle cure. “Sono convinto – ha detto – che la disponibilità di un mezzo di diagnosi e cura non può essere di per sé un obbligo al suo utilizzo. L’uso deve rispondere ad un criterio di proporzionalità anche in terapia intensiva. La proporzionalità di cura è un bilancio di appropriatezza e la gravosità della cura. Questo dipende da molti elementi, tra cui: successo, valutazione delle complicanze, costo economico. La proporzionalità delle cure comporta una relazione e un insieme di due sguardi tra persone che condividono una scelta.
“La decisione di sospendere o non cominciare trattamenti di supporto vitale che non sono considerati proporzionati e quindi lasciando l’evoluzione della malattia che conduce alla morte del paziente rappresenta una scelta una eticamente e clinicamente corretta. E da un punto di vista etica non c’è differenza tra sospendere e non cominciare un trattamento non proporzionato”. C’è però una differenza, ammette Giannini “di peso psicologico”. Allo stesso tempo “non si possono portare avanti azioni che hanno l’obiettivo di accelerare la morte del paziente”. Su questa linea, ha concluso Giannini “il catechismo della chiesa Cattolica “accetta la sospensione dei trattamenti dove questi non siano proporzionati. Il medico non deve angustiarsi, noi sperimentiamo il limite e lo comprendiamo”.