La setticemia, lungi dall’essere un lontano ricordo dei romanzi d’appendice dell’800, è una condizione che, anche nel terzo millennio, continua a mietere migliaia di vittime ogni anno nei Paesi occidentali. La mortalità per shock settico è ancora dell’ordine del 50-60% dei casi. E’ per questo che l’attenzione degli esperti in terapia intensiva si concentra da tempo nella ricerca di soluzioni terapeutiche in grado di abbattere questo elevato tasso di mortalità. Ma la strada sembra ancora in salita. Il
New England Journal of Medicine e JAMA pubblicano degli articoli ‘
online first’, relativi a studi presentati all’
International Symposium on Intensive Care and Emergency Medicine, in corso a Bruxelles dal 18 al 21 marzo.
Lo studio di JAMA evidenzia come, almeno in Australia e in Nuova Zelanda, si sia registrata una riduzione di mortalità per sepsi grave e shock settico, tra il 2000 e il 2012. Queste condizioni restano tuttavia la principale causa di morte tra i pazienti in condizioni critiche. Negli ultimi vent’anni sono stati condotti una serie di studi randomizzati nel tentativo di individuare dei nuovi trattamenti per migliorare la sopravvivenza di questi pazienti.
Kirsi-Maija Kaukonene colleghi della Monash
University (Melbourne, Australia) hanno esaminato le statistiche di mortalità relative ad oltre 101 mila pazienti con sepsi grave o shock settico, ricoverati presso 171 centri di terapia intensiva in Australia e Nuova Zelanda dal 2000 al 2012, rilevando una riduzione di mortalità dal 35% al 18,4% in questo periodo, pari ad un decremento dell’1,3% l’anno e una riduzione del rischio relativo del 47,5%. Gli autori non spiegano tuttavia se questo abbattimento della mortalità sia dovuto ad un miglioramento delle procedure diagnostiche, all’impiego di terapie antibiotiche a più ampio spettro e somministrate più precocemente, ad una terapia di supporto più aggressiva e adeguata alla gravità della malattia. Visto tuttavia che miglioramenti simili si sono verificati anche nei pazienti non settici ricoverati nelle terapie intensive, gli autori concludono che “questi enormi risultati sarebbero da attribuire ai miglioramenti generali occorsi in questi anni nella gestione delle unità di terapia intensiva, più che al trattamento della sepsi”. (
doi:10.1001/jama.2014.2637)
Lo studio ProCESS (
Protocolized Care for Early Septic Shock), pubblicato invece sul
New England Journal of Medicine (
DOI: 10.1056/NEJMoa1401602) ha confrontato tra loro tre diversi modalità di trattamento dello shock settico: quello basato sul protocollo EGDT (
Early Goal Directed Therapy), quello standard basato su un protocollo e la terapia convenzionale, affidata al giudizio del medico. Posto che l’individuazione precoce dello shock settico e la rapida messa in atto del suo trattamento per ridurre la mortalità associata, rimangono un punto fermo della medicina dal Medioevo ad oggi, questo studio randomizzato, condotto presso 31 centri di terapia intensiva statunitensi, nel quale i pazienti con shock settico venivano prontamente diagnosticati e trattati con antibiotici e terapie di supporto, non ha evidenziato un particolare vantaggio, relativamente a mortalità e morbilità, dall’impiego di manovre invasive (quali cateterismo venoso centrale, monitoraggio emodinamico centrale), né dall’uso di trattamenti rianimatori basati su protocolli, rispetto al trattamento offerto al paziente sulla base del giudizio del medico. Insomma, la diagnosi e il trattamento precoce (non necessariamente invasivo e basato su protocolli) sono le vere carte vincenti contro lo shock settico.
Sempre sul
New England, viene pubblicato lo studio ALBIOS (
Albumin Italian Outcome Sepsis) (
DOI: 10.1056/NEJMoa1305727), un lavoro interamente
made in Italy, condotto presso 100 Rianimazioni della penisola e finanziato da AIFa. Lo studio, che ha arruolato 1818 pazienti con setticemia grave o shock settico si proponeva di vagliare l’utilità o meno della somministrazione di albumina in questa tipologia di pazienti. Non sono state osservate differenze significative tra il gruppo dei trattati con albumina e i controlli, nella mortalità a 28 e a 90 giorni. Dunque da questo punto di vista lo studio è stato negativo. “Tuttavia – commenta da Bruxelles il professor
Massimo Antonelli, Presidente della SIAARTI (Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva) e coautore dello studio – un’analisi
post hoc, effettuata sui 1121 pazienti in shock settico, ha evidenziato che la somministrazione di albumina, comporta un significativo aumento di sopravvivenza, limitatamente a questo gruppo di pazienti”. Per una conferma definitiva sarebbe naturalmente auspicabile disegnare uno studio apposito su quest’unica categoria di pazienti, ma i risultati di ALBIOS sembrano molto suggestivi.
“Tornare a usare l’albumina nei reparti di terapia intensiva – commenta
Luciano Gattinoni, direttore del Dipartimento di emergenza urgenza della Fondazione Ca’ Granda Policlinico di Milano e primo autore dello studio – potrebbe significare salvare la vita a 5-6 mila persone in più ogni anno in Europa. Nello studio ALBIOS abbiamo dimostrato che la somministrazione dell’albumina riduce la mortalità del 6-7% nei pazienti con shock settico; un risultato straordinario per una condizione clinica tanto a rischio, che apre la strada ad una nuova indicazione.” In Italia sepsi e shock settico colpiscono ogni anno 16 mila persone, 120-200 mila in tutta Europa.
Maria Rita Montebelli