Due sono le principali filosofie/criteri che guidano i meccanismi di determinazione del prezzo dei farmaci. Da un lato vi è il criterio, storicamente obsoleto, secondo cui la spesa per un farmaco rappresenta l’acquisto della materia prima che lo costituisce (criterio della materia prima); secondo questa filosofia, il prezzo del farmaco serve come “pagamento” dei milligrammi di principio attivo necessari per la terapia cosicché, sulla base di una diretta proporzionalità, il prezzo cresce al crescere della quantità di principio attivo (e viceversa).
D’altro lato vi è il criterio della determinazione del prezzo basato sull’entità/dimensione/importanza del beneficio clinico generato dal trattamento (criterio del beneficio). Nei paesi anglosassoni si parla di “value-based pricing", laddove i termini beneficio, risultato clinico, valore clinico, valore terapeutico, etc servono più o meno indifferentemente ad indicare il parametro principale che orienta il prezzo. Secondo questa filosofia, si riconosce che il driver della remunerazione economica è rappresentato dall’entità del beneficio clinico cosicché il prezzo di un farmaco è tanto più alto quanto più grande è il beneficio.
Criticità note nella determinazione del prezzo "value-based"
Il difetto principale del criterio basato sul beneficio è che, in alcune situazioni, il decisore vive una comprensibile riluttanza laddove un farmaco si dimostra dotato di notevole efficacia clinica, ma risulta costituito da una sostanza chimicamente molto semplice ed economica (ad esempio, un principio attivo inorganico, già disponibile a basso costo sul mercato dei prodotti chimici). E’ noto il caso del triossido di arsenico (TRISENOX, fiale 10 mg), farmaco efficace nel prolungare la sopravvivenza nei pazienti con leucemia promielocitica acuta e al tempo stesso costituito da un composto chimicamente semplicissimo, largamente disponibile a basso prezzo. TRISENOX ha posto a suo tempo una scelta assai difficile per l’Agenzia essendovi una divergenza macroscopica tra il prezzo stimato in base al costo della materia prima (meno di 10 euro per fiala) e il prezzo richiesto dal produttore sulla base del beneficio (895 euro per fiala). Non fu trovato un accordo tra questi due valori estremi ed il farmaco fu perciò collocato in fascia C. Casi simili sono all’ordine del giorno soprattutto nel campo dei trattamenti “orfani” (antibiotici per la fibrosi cistica, FANS iniettabili per la chiusura del dotto di Botallo, trattamenti per la sindrome miastenica di Lambert-Eaton, caffeina in fiale nei neonati bambini prematuri etc).
Un eccesso di contrasto
Una breve nota appena pubblicata l’11 Marzo 2014 su bmj.com [1] prende in esame il caso Avastin-Lucentis (con relativa querelle sui rispettivi prezzi). In particolare viene discusso il contrasto che, per questi trattamenti, si evidenzia tra l'indicazione di prezzo proposta dal criterio della materia prima e quella dal criterio del beneficio.
Nella pratica degli scorsi anni, i valori di prezzo per questi due trattamenti intravitreali sono stati i seguenti: circa 700 euro per iniezione per Lucentis contro circa 70 euro per iniezione per bevacizumab off-label. Come è noto, la questione è ulteriormente complicata dalla pluralità di alternative disponibili nella classe dei farmaci anti-VEGF (bevacizumab, aflibercept, ranibizumab) e dal riconoscimento, per questi farmaci, di indicazioni sia oncologiche (es. cancro colo-rettale) che oftalmologiche (es. degenerazione maculare senile, DMS).
Tra tutti i farmaci anti-VEGF, solo aflibercept (nomi commerciali: ZALTRAP e EYLEA) ha, dal punto di vista normativo, le carte in regola per ambedue queste indicazioni. La versione oncologica di aflibercept (ZALTRAP) ha un costo per mg di 9,45 euro, mentre quella oftalmologica (EYLEA) costa più di 300 euro per mg. Il costo per mg di aflibercept varia perciò di circa 30 volte tra l’una indicazione e l’altra. Infatti, per trattare un paziente oncologico per via sistemica serve, ovviamente, una dose molto maggiore rispetto a quella necessaria per un paziente oftalmologico (trattato per via topica con una quantità assai piccola di principio attivo). Tuttavia sul versante dei costi, un paziente oncologico trattato con ZALTRAP costa complessivamente circa 23mila euro (assumendo un numero "tipico" di cicli terapeutici), mentre un paziente con DMS, se trattato con 10 dosi di EYLEA, costa circa 7mila euro. L’altro anti-VEGF avente l’indicazione oncologica (bevacizumab-Avastin) costa non meno di 23mila euro per paziente; a sua volta, l’altro anti-VEGF avente l’indicazione oculistica (ranibizumab-Lucentis) costa anch’esso circa 7mila euro per paziente.
Questo quadro di riferimento vede perciò valori di spesa che si collocano a non meno di 20mila euro per paziente nella terapia oncologica e attorno a 7mila euro per paziente nella terapia oculistica. Tra l’altro, sorge il quesito se sia condivisibile questo rapporto tra questi due benefici poiché due mesi di sopravvivenza guadagnati nel cancro colo-rettale valgono 20mila euro mentre il miglioramento della vista in oltre il 30% dei pazienti vale 7mila euro. Il quesito si pone perché, da un lato, può sembrare sovra-stimata la remunerazione per l’oncologia e, al tempo tesso, sottostimata quella di 7mila euro per il beneficio oftalmologico. Ma d’altro lato, il criterio del costo della materia ribalta completamente ogni ragionamento di questo tipo perché salvare la vista finisce per valere pochi euro soltanto, anziché 7mila euro per paziente.
Il conflitto tra criteri
Ciò premesso, dove va collocato il prezzo di bevacizumab se somministrato off-label nella terapia della DMS? Il criterio clinico colloca il costo di bevacizumab intravitreale sui valori comuni ai due competitors, ranibizumab e aflibercept (circa 700 euro per iniezione ossia 7mila euro per paziente). Invece, il criterio del costo per mg colloca bevacizumab attorno a 70 euro per iniezione (ossia 700 euro per paziente). Come nel caso dell’arsenico triossido e degli altri trattamenti orfani sopra citati, è evidente che, anche nella questione bevacizumab-vs-ranibizumab, i due criteri – quello della materia prima e quello del beneficio clinico - appaiono in poderoso conflitto l’uno con l’altro.
Il value-based pricing è la soluzione
A quale dei due criteri va data dunque priorità? Va tentato un compromesso? La questione resta di difficilissima soluzione. Come abbiamo osservato [1], una risposta, anche se orientata fin troppo speculativamente verso una teorica ricerca del “giusto”, può forse venire dall'esame del seguente scenario ipotetico. Immaginiamo che il produttore di Avastin decida di richiedere l’indicazione intravitreale e si presenti in Comitato Prezzi e Rimborso per negoziare una presunta nuova specialità a somministrazione intravitreale. In tale negoziato, 700 euro per iniezione sarebbero troppi (visto che la ricerca su bevacizumab intravitreale è stata indipendente), ma – d’altro canto - 70 euro per fiala sarebbero troppo poco; per effetto di quest'ultimo valore, infatti, verrebbe mortificata ogni ulteriore ricerca su questa patologia.
In conclusione, questa vicenda pone con forza l’accento sulla necessità di allineare l’Italia al dibattito attualmente in corso in Europa a proposito del value-based pricing. In particolare, servirà sviluppare una serie di regole che funzionino a 360° e ciò sembra essere prioritario rispetto a decisioni improvvise e frammentarie proposte come eccezioni da applicare su singoli casi.
Mauro De Rosa
Presidente Sifact - Società Italiana di Farmacia Clinica e Terapia
Andrea Messori
Vice Presidente Sifact - Società Italiana di Farmacia Clinica e Terapia
Fonte: Editoriali Aifa, 13 marzo 2014
Messori A, De Rosa M. Imagining the cost per injection of on-label bevacizumab given for age-related macular degeneration (Rapid Response), published 11 March 2014