In Italia lo scompenso cardiaco acuto colpisce dall’1 al 2% della popolazione; questa patologia è la causa di oltre 200 mila ricoveri per riacutizzazioni all’anno e ancora oggi un terzo dei pazienti muore dopo un anno dal ricovero ed uno su due a meno di 5 anni dal ricovero. Ma per tutte queste persone potrebbe oggi arrivare una buona notizia, che riguarda l’uso della serelaxina, molecola attualmente in fase di studio. A dirlo è
Marco Metra, Direttore dell’Istituto di Cardiologia dell’Università e Spedali Civili di Brescia, nel corso della 73° edizione del Congresso Nazionale della Società Italiana di Cardiologia.
Lo scenario che si prospetta a chi è colpito da scompenso cardiaco acuto è lo stesso da diversi decenni: di innovazioni terapeutiche in grado di migliorare la qualità e/o la durata della vita dei pazienti non ce ne sono da molto tempo. Qualcosa però sta cambiando, ha spiegato Metra, coordinatore, insieme al professor Teerlink dell’Università di San Francisco, del più ampio studio riguardante gli effetti della infusione di serelaxina, primo di una nuova classe di farmaci che agiscono sullo scompenso cardiaco acuto attraverso diversi meccanismi su cuore, reni e vasi sanguigni. Commentando i dati relativi allo studio RELAX-AHF, condotto su 1.161 pazienti ricoverati per insufficienza cardiaca acuta e che riguardava proprio questa sostanza, “serelaxina è la sola molecola ad avere dimostrato una significativa riduzione del 37% della mortalità nello scompenso cardiaco acuto, migliorando anche la dispnea (respiro corto), il sintomo più comune dello scompenso cardiaco”, ha detto l’esperto, tra gli scienziati che hanno condotto lo studio.
Dunque, per la prima volta una sola terapia potrebbe essere in grado di allungare la vita dei pazienti, alleviarne i sintomi e al contempo influire sulle cause alla base della malattia. "La riduzione della mortalità riscontrata con serelaxina è supportata sia dalla diminuzione degli episodi di peggioramento dello scompenso cardiaco, sia dai dati dei biomarcatori raccolti durante lo studio, suggerendo che gli effetti clinici di serelaxina potrebbero essere collegati ad una protezione dai danni cardiaco, epatico e renale verificatisi durante l’episodio d’insufficienza cardiaca acuta", ha aggiunto Metra.
Pubblicati su ‘The Lancet’, i risultati dello studio RELAX-AHF erano stati contemporaneamente presentati al Congresso dell'American Heart Association (AHA). Un secondo articolo è attualmente in pubblicazione sul ‘Journal of the American College of Cardiology’ e dimostra i favorevoli effetti di serelaxina su marcatori biologici correlati con il danno cardiaco, renale ed epatico in corso d’insufficienza cardiaca acuta.
Lo studio di Fase III ha inoltre mostrato che la significativa riduzione di segni e sintomi di peggioramento dello scompenso cardiaco, porta a una riduzione dell'esigenza di un trattamento per lo scompenso cardiaco intensificato e quindi della durata media di degenza in ospedale e nel reparto di terapia intensiva/cardiologia. Una buona notizia anche in un’ottica di contenimento della spesa sanitaria, considerato che in Italia lo scompenso cardiaco è la seconda causa di ricovero più frequente dopo il parto. “Serelaxina è un derivato sintetico dell’ormone umano relaxina-2, che media gli effetti emodinamici della gravidanza. Nelle donne infatti i livelli di questo ormone aumentano per sostenere gli importanti cambiamenti fisiologici durante questa fase” prosegue il prof. Metra, “una speranza che trae quindi origine dai meravigliosi e complessi sistemi che accompagnano lo sviluppo di una nuova vita”. Lo studio ha inoltre mostrato che questo farmaco è ben tollerato e gli eventi avversi, tra cui pressione sanguigna bassa (ipotensione), erano generalmente comparabili con il placebo. In particolare è stata evidenziata un'incidenza più bassa di eventi avversi correlati a insufficienza renale con serelaxina rispetto al placebo.
Ma non si è parlato solo di scompenso cardiaco acuto nel corso del congresso SIC. Oltre a questo, infatti, si è discusso anche di innovazione e progresso nella ricerca scientifica sull’ipertensione, che è una condizione che ancora non è sotto controllo. Sono infatti 15 milioni gli italiani che ancora oggi soffrono di ipertensione e solo il 30% di loro riesce a mantenere la pressione sotto controllo. “Chi è iperteso ha più probabilità di incorrere in gravi eventi cardiovascolari, come infarto o ictus ed è stato ormai accertato come la riduzione dei valori pressori entro i limiti raccomandati dalle linee guida riduca notevolmente l’eventualità di queste complicanze”, ha affermato
Bruno Trimarco, Professore di Cardiologia presso l’Università Federico II di Napoli.
Ecco perché le principali Società Scientifiche si sono date l’obiettivo di innalzare la quota di pazienti a target pressorio nell’arco dei prossimi anni.
Per raggiungere questo obiettivo può essere determinante il contributo di farmaci innovativi, come dimostra l’esperienza in uno studio real life con aliskiren, i cui risultati sono stati presentati da Trimarco nella seconda relazione ospitata nell’ambito del simposio.
Questo studio nazionale è stato condotto nella reale pratica clinica su un campione di oltre 11.000 pazienti che, nonostante la terapia antipertensiva, non riuscivano a mantenere la pressione sotto controllo. A questi pazienti è stato somministrato aliskiren, il primo di una nuova classe di farmaci per il trattamento dell’ipertensione arteriosa, gli inibitori diretti della renina.
“Su oltre 11.000 pazienti – ha concluso Trimarco - l’aggiunta dell’inibitore diretto della renina ha determinato un’efficace riduzione dei valori pressori, consentendo di portare a target in soli 6 mesi il 70% dei pazienti in trattamento, consentendo così di semplificare lo schema terapeutico e suggerendo ricadute interessanti in un’ottica di contenimento della spesa sanitaria”.