Sembrerebbe essere veramente promettente, visto che anche gli ultimi risultati dello studio di fase III - non ancora pubblicati perché la sperimentazione è ancora in stadio di follow-up - sembrano confermare l'efficacia in pazienti affetti da carcinoma polmonare non a piccole cellule non squamoso (Nsclc): ecco perché Tivantinib è stato uno dei protagonisti delle prime giornate del Congresso annuale della European Society of Medical Oncology 2012, in corso a Vienna.
Chi studia i carcinomi polmonari sa quanto questi siano difficili da trattare. I pazienti spesso arrivano alla diagnosi solo a stadio molto avanzato, quando il tumore ha già creato metastasi e non è operabile. Un medico che si trova davanti un paziente di questo tipo sa che la probabilità di vederlo sopravvivere per cinque anni è dell'1-2%. “E spesso sappiamo che almeno l'80% dei pazienti non supererà l'anno, visto che la sopravvivenza media di un paziente con cancro al polmone di stadio 4 - il peggiore, quello in cui il tumore ha dato metastasi - di media è 10-12 mesi”, ha spiegato durante il Congresso
Giorgio Scagliotti, direttore del Dipartimento di Scienze Cliniche e Biologiche dell'Università di Torino.
Non a caso stiamo parlando di uno dei big killer dell'oncologia, che anche quest'anno in Italia si
riconferma al primo posto complessivamente per la mortalità, e che risulta pericoloso soprattutto per gli uomini, causando circa il 27% dei decessi per tumore in questa popolazione. Si stima che le morti ogni anno per questa patologia siano addirittura 1,3 milioni. E tra tutti i tipi di tumori maligni del polmone, il carcinoma polmonare non a piccole cellule non squamoso è forse il più comune.
Per questo tipo di patologia dunque, tra gli obiettivi principali oltre all'aumentare la sopravvivenza globale, c'è quello di farlo in maniera da non compromettere la qualità della vita. “Le terapie oncologiche più aggressive, come quelle che si mettono in atto sui tumori negli stadi avanzati, spesso hanno degli effetti collaterali molto forti, compromettendo la qualità della vita dei pazienti”, ha spiegato ancora Scagliotti. “Quello che dobbiamo fare dunque, è aumentare le speranze di sopravvivenza dei pazienti, ma senza che questo comprometta la loro esistenza nei mesi guadagnati”.
Tra le terapie che potrebbero riuscire a fare tutto ciò anche Tivantinib, un inibitore orale selettivo del recettore intracellulare MET. Il pathway di questo recettore, infatti, è un'importante via di trasmissione attraverso la quale le cellule riescono a crescere e dividersi e che dunque è normalmente presente nei tessuti sani. Nelle cellule tumorali, invece, MET viene attivato continuamente e in maniera inappropriata, svolgendo così un ruolo signficativo nello sviluppo e nella diffusione del cancro, nella migrazione e nella proliferazione delle cellule malate, nell'alterazione dell'apoptosi (morte cellulare programmata), nell'angiogenesi (capacità di sviluppare nuovi vasi sanguigni, che portino nutrienti al tumore), nella metastatizzazione. “La cosa promettente di questo tipo di inibitori è che funzionano sul fenotipo maligno stesso, a prescindere da quale patologia sia causato”, ha spiegato Scagliotti al nostro giornale, proprio nel corso del congresso Esmo 2012 a Vienna. “E per questo dimostrano di agire su tumori diversi, da quello polmonare come in questo caso, a quello del fegato, a quello del colon-retto e così via: in altre parole in tutti i tipi di cancro che presentano l'alterazione”.
Ma perché Tivantinib è così promettente? Lo hanno dimostrato e lo continuano a dimostrare diversi studi. Il farmaco ha infatti superato studi clinici di fase 2 che hanno dimostrato come in associazione a
Erlotinib questo migliori del 46% la sopravvivenza complessiva mediana rispetto al solo Erlotinib: la differenza è clinicamente rilevante, visto che si tratta di 10,1 mesi contro i 6,9 del singolo farmaco. Inoltre, il farmaco incrementa addirittura del 91% nella sopravvivenza mediana libera da progressione (4,4 mesi contro 2,3 mesi). Ma oggi il farmaco sembrerebbe promettere buoni risultati anche in uno studio di fase 3 chiamato Marquee, per il quale sono stati arruolati 988 pazienti.
A seguito dei buoni risultati ottenuti in precedenza, è partita infatti questa sperimentazione, dove
Tivantinib è usato sempre in associazione allo stesso
Erlotinib su pazienti affetti da carcinoma polmonare non a piccole cellule non squamoso, che presentavano una condizione non operabile e avevano ricevuto almeno un trattamento chemioterapico a base di platino. Anche in questo studio, randomizzato in doppio cieco, in cui la fase di somministrazione si è conlcusa da qualche anno ma al momento continua il follow-up, il farmaco promette bene. “In particolare aveva già dimostrato - per ora solo in piccoli studi - di essere particolarmente efficace nei pazienti i cui tessuti tumorali presentano un'alta espressione di MET”, ci ha spiegato ancora Scaglioti. “Sono questi risultati che ci sono sembrati interessanti e sufficienti per procedere con ulteriori ricerche. Non sappiamo ancora quanto tempo ci vorrà per completare tutto il ciclo di studi che potrebbero portare all'uso del farmaco nei reparti di oncologia. Il fatto che l'inibizione di MET stia dando questi risultati, però, ci basta ad andare avanti”.