23 novembre -
È da sempre uno dei grandi killer in Italia e nel mondo, ma l’approccio al carcinoma della prostata è cambiato negli ultimi anni, differenziandosi sempre di più in base al livello di rischio, stabilito sul singolo tumore e sul singolo paziente.
Ed è in particolare l’atteggiamento verso i carcinomi a più basso rischio ad aver subito i cambiamenti forse più interessanti. “È stato creato il protocollo multicentrico internazionale PRIAS di sorveglianza attiva, che in Italia è patrocinato da SIUrO”, ci ha spiegato
Alessandro Bertaccini, del Comitato Scientifico SIUrO. “Tenendo sotto controllo con particolare attenzione i pazienti, ci siamo infatti accorti che per alcuni di quelli che presentavano tumori più piccoli e meno aggressivi era possibile andare avanti per molti anni – fino anche a 10 – senza dover ricorrere ad un trattamento radicale. Questo è proprio la cosiddetta sorveglianza attiva: le neoplasie vengono tenute sotto controllo perché potrebbero non diventare pericolose, poi chiaramente se sorge qualsiasi tipo di dubbio possano passare ad un livello medio o alto di rischio allora si può agire con chirurgia e radioterapia, o con terapie ormonali, o chemioterapia”.
Ma come si fa a capire quando è il caso di agire? “Molti pazienti sono spaventati dal test del PSA (esame di dosaggio dell'antigene prostata-specifico, i cui alti livelli aiutano a diagnosticare il tumore alla prostata, ndr), ma in realtà se preso in maniera isolata questo non ha molto valore”, ci ha spiegato ancora lo scienziato. “In realtà quello cui bisogna stare attenti è più che altro la cinetica del PSA, ovvero come questo livello evolve nel tempo. Ed è anche su questo si basa il protocollo PRIAS SIUrO ITa. Per tenerla sotto controllo è stata sviluppata anche una applicazione per iPhone e iPad, che si chiama PSA Kynetics e che permette di calcolare i parametri di cinetica del Psa, stamparli e inviarli allo specialista per la valutazione”.
Ma la sorveglianza attiva – come si può immaginare – non è tutto. “Per ridurre l’incidenza bisogna capire quali sono i reali fattori di rischio, soprattutto a livello genetico”, ha commentato ancora Bertaccini. “In questo modo possiamo sviluppare farmaci sempre più efficaci, e magari agire anche sulla prevenzione”. Quando si guarda alla prevenzione però, la cosa più importante è l’alimentazione e questo è uno dei campi di ricerca interessanti. “Non solo la genetica ma anche quello che mangiamo – ha concluso – è estremamente importante. Un ambito dove c’è ancora molto da indagare è infatti quali sono i fattori di rischio collegati ad una cattiva alimentazione o allo stile di vita”.