Il Tar del Lazio dà ragione al Sumai, Sindacato Unico della Medicina Ambulatoriale Italiana e Professionalità dell’Area Sanitaria, e con sentenza pubblicata il 29 maggio 2018 annulla il decreto firmato un anno fa dal Commissario ad Acta della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, che prevedeva tempi massimi predefiniti e rigorosi per 63 esami specialistici (ad esempio: Visita neurologia, 20 minuti; Elettromiografia semplice, 5 minuti; Elettrocardiogramma, 15 minuti; Visita oncologia: 20 minuti).
Insieme al Sumai, ad adiuvandum, hanno fatto ricorso contro il decreto del Commissario ad Acta anche la Fnomceo, Federazione Nazionale Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri e l’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri della Provincia di Viterbo.
Nella sentenza i giudici evidenziano in particolare due principi:
- “La durata effettiva di ogni singola prestazione dipende da ‘tipologia’ e ‘complessità’ del trattamento” e la valutazione della durata della singola prestazione “è riservata in via esclusiva allo ‘specialista ambulatoriale”;
- la lotta alle liste d’attesa potrebbe essere concretizzata “attraverso un (tanto auspicato) aumento delle risorse umane e strumentali da adibire ad un così delicato settore quale quello della pubblica sanità”.
Per Antonio Magi, segretario generale del Sumai, si tratta di una vittoria per i medici, ma anche per i pazienti, “poiché lo specialista ambulatoriale potrà dedicare loro tutto il tempo necessario”.
Dottor Magi, il Sumai aveva da subito criticato il decreto. Questo anno di applicazione ha confermato i vostri timori?
Sì. Ci sono state molte difficoltà e non c’è stato modo di evitarlo. i Cup, infatti, erano tenuti a prenotare gli appuntamenti sulla base dei tempi stabiliti nel decreto e i medici non potevano far altro che accogliere il gran numero di cittadini che ogni giorno venivano indirizzati nei loro ambulatori. È stato un anno difficile perché tempi cosi ristretti come quelli previsti dal tempario comportano una serie di pericoli molto gravi. Primo tra tutti la mancanza di tempo adeguato a una valutazione attenta e approfondita delle condizioni di salute dei pazienti. Viene dunque messa a rischio la salute dei pazienti.
Anche là dove la valutazione dovesse essere esatta, è evidente come il tempario inasprisca l’alleanza medico-paziente costringendo lo specialista a trascurare il tempo di ascolto, che invece è parte integrante della prestazione.
A farne le spese non è solo il paziente. L’aumento di rischio clinico si riversa anche sul medico. Così come tali condizioni di lavoro aumentano lo stress e dunque il burn out.
Non va inoltre sottovalutato il rischio che si verifichi negli ambulatori specialistici il fenomeno delle aggressioni contro i medici di cui sono già tristemente noti i Pronto Soccorso. Questo perché i tempi strettissimi di confronto tra medici e pazienti o lo slittamento della visita rispetto all’orario indicato dal Cup a causa di una visita che richiede tempi di superiori a quelli previsti dal tempario possono innescare uno stato di stress nel cittadino e sfociare in violenza.
E poi non si può pretendere che nessuno faccia al meglio il proprio lavoro imponendo tempi al di sotto di quelli necessari per compiere quel lavoro. Questo vale per tutti i lavoratori, ma è evidente quanto questo modo di pensare sia sbagliato nell’ambito della medicina.
Siete soddisfatti delle motivazioni dei giudici?
Assolutamente. I giudici hanno ribadito alcuni principi importantissimi, a partire dal fatto che le amministrazioni regionali sono tenute a rispettare l’Accordo collettivo nazionale di lavoro.
L’art. 27 dell’ACN 2015, nello specifico, antepone gli aspetti qualitativi a quelli meramente quantitativi delle prestazioni, stabilendo chiaramente che è lo specialista a decidere quanto tempo riservare a una prestazione.
I giudici hanno anche contestato alla Regione il fatto di avere applicato il tempario riproducendo l’esperienza di altre realtà territoriali senza un’attenta valutazione delle peculiarità del Lazio.
Infine hanno chiaramente affermato che le liste d’attesa non si riducono tagliando i tempi delle prestazioni, ma aumentando le risorse umane e strumentali.
Secondo lei nel Lazio c’è un problema di risorse umane e strumentali inferiori alle necessità?
Ci sono quattro indicatori che lo dimostrano:
- la spesa out of pocket, perché chi non riesce a sottoporsi a una visita nel sistema pubblico in tempi ragionevoli ricorre al privato;
- il ricorso al pronto soccorso di chi necessita di una visita specialistica;
- la mancata assunzione di personale anche in sostituzione dei medici andati in pensione;
- l’utilizzo del personale del territorio per coprire i turni in ospedale a causa del blocco del turn over.
È un dato di fatto che tutto questo ha indebolito la specialistica territoriale e contribuito all’allungamento delle liste d’attesa.
Parlare di investire su nuove risorse in periodo di ristrettezze non è un po’ fare una programmazione dei sogni?
Le risorse per la copertura delle prestazioni di medicina territoriale nel Lazio c’erano, ma sono state in buona parte utilizzate per coprire i buchi di bilancio. Se mancano i soldi quel che si può fare è ridurre gli sprechi, non tagliare il tempo dedicato alle prestazioni, perché significherebbe ridurre la tutela della salute dei cittadini.