Intervista esclusiva al presidente Aiop, Enzo Paolini
di Cesare Fassari
Presidente Paolini, iniziamo con alcuni dati per capire bene qual è la realtà dell’ospedalità privata in Italia. Quante sono le strutture, quanti ricoveri, quanto costano, quanti operatori vi lavorano?
Numeri importanti che è bene riaffermare. Non tutti, compresi gli addetti, sanno infatti che su un totale di 1.200 ospedali operanti in Italia, 550 sono case di cura private accreditate. Per un totale di quasi 46mila posti letto, dove scelgono di essere ricoverati ogni anno 1 milione e 400mila italiani, con una spesa complessiva pari al 7,5% della spesa ospedaliera complessiva. Non tutti sanno poi che il settore occupa oltre 68mila addetti con più di 11mila medici e 20mila infermieri. Ma, al di là dei numeri, quello che conta è il peso qualitativo e l’ampiezza della gamma assistenziale che siamo in grado di assicurare in tutto il paese. Con vere e proprie punte di eccellenza, anche nelle alte specializzazioni.
Nel vostro ultimo rapporto del 2009 avevate chiesto tre cose: la confrontabilità dei bilanci tra pubblico e privato; la revisione delle tariffe e dei Drg; la creazione di un ente terzo per valutare efficienza, qualità e costi del pubblico e del privato. Ci vuole spiegare il perché di queste tre richieste?
Da tempo si parla sempre più spesso di trasparenza. Nei bilanci, nei rapporti, nelle relazioni, nelle nomine. E non solo in sanità. Noi non facciamo altro che chiedere trasparenza nei conti gestionali delle strutture sanitarie, mettendo finalmente sullo stesso piano i bilanci di un ospedale pubblico con quelli di un ospedale privato. Confrontiamoli questi bilanci. Vediamo perché, anche per una stessa prestazione, i costi appaiono così difformi. Conseguentemente rivediamo e ricalibriamo tariffe e Drg, consci che nel pubblico ci sarà sempre una fetta di attività non tariffabile. Il punto è identificarla bene questa parte non tariffabile. Occorre valutarla funzione per funzione e non, come avviene oggi, trasformando le funzioni “extra Drg” in una sorta di buco nero a piè di lista, con il quale, di fatto, si sanano i bilanci, coprendo sprechi e inefficienze nelle attività tariffabili. Perché delle due l’una: o le tariffe attuali sono troppo basse, e allora si giustificherebbe la necessità degli ospedali pubblici di riversare nel piè di lista il differenziale tra costi effettivi e tariffe DRG, oppure c’è ancora troppa inefficienza. Anche perché, noi, i privati, con quelle stesse tariffe siamo obbligati a farcela, non avendo a disposizione alcun piè di lista salvifico a fine anno.
E l’ente terzo a cosa servirebbe?
Ci stavo arrivando. Trasparenza, tariffe più adeguate e monitorate sono essenziali ma per dare un effettiva svolta al sistema in chiave di efficienza ed effettiva competitività occorre che le Asl si liberino della gestione diretta.
Si spieghi.
Le sembra normale che l’ente preposto al controllo e alla verifica della qualità delle cure e della gestione delle risorse sia lo stesso che eroga servizi e prestazioni? Insomma oggi le Asl sono controllori di sé stesse. Noi al contrario pensiamo si debba ricorrere a un ente terzo, che possiamo immaginare di livello regionale oppure in capo alle singole Asl, che incarni la funzione di governance pubblica del sistema sanitario.
E chi erogherà le prestazioni?
Gli stessi soggetti pubblici e privati che le erogano oggi ma con la differenza di essere messi sullo stesso piano e di operare con le stesse regole e le stesse tariffe e di rispondere appunto a questo ente terzo. Un ente estraneo alla gestione e agli interessi che ne conseguono, che valuterà, programmerà e sceglierà con chi continuare a lavorare in base alla qualità e al costo che ogni singola struttura sarà in grado di garantire.
Eravamo a dicembre. Ad oggi avete avuto qualche risposta?
Intanto quelle proposte sono diventate un vero e proprio articolato di legge che come lobby abbiamo messo a punto e presentato alle istituzioni…
Ho capito bene? Lobby?
Sì ha capito bene. Non ho alcun problema a definirmi un lobbista. Anzi sono orgoglioso di essere stato chiamato “un lobbista coi fiocchi”, come mi apostrofò Giuliano Ferrara in risposta a una mia lettera al Foglio. Fare lobby, con proposte chiare, esponendosi in prima persona a difesa delle proprie prerogative e per valorizzare le proprie potenzialità per lo sviluppo della sanità, è un’attività pulita e coerente con il nostro ruolo di associazione nazionale. Se il problema è che in Italia solo a sentir parlar di lobby si pensa ancora al diavolo…beh, non è un problema mio.
Bene, scusi l’interruzione. Stavamo parlando di una vostra proposta di legge. Ci dica.
Come le dicevo, quelle originarie intuizioni del rapporto 2009, sono ora diventate veri e propri articoli emendativi al decreto legislativo 502 che abbiamo recentemente illustrato al Governo, nella persona del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Aldo Brancher e al Parlamento, in sede di Commissione d’inchiesta sugli errori medici e sui disavanzi sanitari, dove abbiamo incontrato il presidente Leoluca Orlando. In ambedue i casi abbiamo riscontrato interesse. Vedremo. Noi andiamo avanti su questa strada. Ora tocca alla politica uscire allo scoperto e affrontare finalmente la questione degli sprechi e delle inefficienze nella sanità italiana.
Tutti nel pubblico?
Sì. Sprechi e inefficienze minano purtroppo le tante eccellenze della sanità pubblica e in alcuni casi, come abbiamo documentato con una ricerca molto seria, arrivano a rappresentare addirittura il 50% dei costi totali di un ospedale, come avviene in Calabria. Una percentuale che tradotta in cifre vuol dire mandare in fumo ogni anno oltre 700 milioni di euro solo in quella regione. E il problema non è solo del Sud Italia, perché margini di inefficienza del 40% li abbiamo in Piemonte e del 30% in Toscana e Marche.
Perché, secondo lei?
Il problema è soprattutto politico…
Anche lei tra i fautori del “fuori la politica dalla sanità”?
Al contrario. Ci vorrebbe più politica. Ma quella che fa gli interessi delle persone non i propri. E per non parlare a vanvera le faccio un esempio concreto.
Ascolto.
Le Asl oggi sono più macchine di consenso elettorale che soggetti di governance pubblica. Gli ospedali, in molte regioni, sono la prima e unica azienda in grado di dare occupazione…
Quest’ultimo non mi sembra un fattore negativo?
Ovvio che no. Ma lo diventa se si invertono le finalità facendo diventare il dare occupazione lo scopo primario di un ospedale, come abbiamo riscontrato in molti casi.
Un esempio?
Uno su tutti. Quello dell’ospedale di Taurianova in provincia di Reggio Calabria con 18 posti letto e 174 dipendenti, o Palmi, 29 posti letto, 209 dipendenti o Cetraro, sempre in Calabria 117 posti letto e 334 dipendenti.
Torniamo alla politica.
Non mi sono ancora spiegato? Oggi la politica in sanità sembra aver smarrito la capacità di innovare di anticipare i bisogni e di mettere a punto le soluzioni giuste. Nello stesso tempo si ferma sulla soglia dei propri interessi immediati. Anche per questo non si vogliono andare a vedere i conti reali e le possibilità alternative a un sistema che sconta troppe inefficienze e che invece potrebbe radicalmente innovarsi con più qualità, minore spesa e maggiore soddisfazione dei cittadini.
E non c’è la buona politica?
Si che c’è. Credo nelle istituzioni e credo nella capacità di affrontare e risolvere i problemi. Ma serve un cambio di passo in chiave più liberale, riscoprendo il coraggio riformatore dei nostri nonni che negli anni ’60 hanno trasformato un paese quasi preindustriale in uno dei paesi più avanzati del mondo.
Di idee liberali e di liberali se ne vedono pochi…
E’ vero. Ma è anche vero che nei colloqui più intensi che ho avuto con diversi esponenti del Pdl e anche della Lega, l’idea di sganciarsi dai vecchi preconcetti contro il privato e contro la logica della competizione virtuosa in sanità convince.
Vi resta pur sempre la Lombardia. Vi piace quel modello o pensate che si possa fare di più?
Il modello lombardo mi piace perché è vincente. Ha dimostrato di poter coniugare rigore nei conti con grande flessibilità nell’offerta e la prova migliore di quanto dico sta sia nei bilanci che nella soddisfazione dei cittadini di quella regione. Ma sono convinto che anche in ambiti sociali e culturali diversi si possano sviluppare modelli altrettanto virtuosi, seppur contrassegnati da una maggiore influenza del pubblico rispetto al modello di Formigoni.
Pensa per caso all’Emilia Romagna, che ha comunque una presenza notevole di case di cura private pur mantenendo rigide prerogative programmatorie nell’attribuzione delle risorse?
In realtà non penso a una regione in particolare ma a un modello che, pur conservando le leve dell’erogazione delle risorse in mano pubblica, metta tutti gli erogatori in grado di poter competere ad armi pari sul piano delle regole e delle tariffe. Per quanto riguarda l’Emilia Romagna o comunque le Regioni, dove il privato arriva a contare il 50% del totale dell’offerta ospedaliera, o più le cose andrebbero senz’altro meglio se le regole e i tetti fossero concordati prima e conseguentemente rispettati dalle parti, mentre oggi si fa tutto a posteriori, semplicemente non pagando quel tot di prestazioni e servizi che si ritiene unilateralmente in eccesso. Prestazioni e servizi, badi bene, regolarmente autorizzati ed erogati nel corso dell’anno dalle nostre strutture. In altre parole il tetto ce lo impongono dopo a cose fatte, quando la prestazione è stata già erogata. Le sembra normale?
Andiamo avanti. Le cronache non mancano di segnalare casi di presunti illeciti nel rapporto tra Asl e case di cura. Esiste veramente un problema di malaffare nella sanità e voi quanto ne siete coinvolti?
Intanto chiariamo una cosa: il fatto che un imprenditore abbia incontri con un politico non può essere definito a priori come un male o addirittura un illecito. Se questi rapporti sono chiari e trasparenti nelle loro finalità non ci sono problemi. Detto questo, ogni illecito va stroncato ma attenzione alla caccia alle streghe. Non posso dimenticare quanto avvenuto ai proprietari del San Carlo di Milano, accusati sei anni fa di aver fraudolentemente falsificato le cartelle cliniche per far lievitare i rimborsi. Oggi sono stati tutti assolti per non aver commesso il fatto. Ma intanto la clinica sono stati costretti a venderla.
Resta il fatto che chi vi vuole male continua a pensare che in sanità sia poco etico fare profitti e che soprattutto sia anche poco realistico, visti i costi da sostenere a fronte di risorse pubbliche sempre limitate. Secondo lei invece in sanità è possibile coniugare business e qualità?
Assolutamente sì. Qualità, efficienza e profitto sono assolutamente compatibili in sanità. Per quanto riguarda l’etica…c’è molta ipocrisia. Quello del no al profitto in sanità è un luogo comune superficiale. Se lo prendessimo alla lettera dovremmo concludere che anche un medico trae profitto dal suo lavoro. E allora che facciamo, non lo paghiamo?
A proposito di personale, i dati da voi stessi pubblicati mostrano un numero di operatori per posti letto pari a poco più della metà di quello del pubblico. Inoltre molti contratti sono di tipo privatistico e al posto degli infermieri in molti casi avete gli Ota?
La verità è che non siamo noi ad avere poco personale. È il pubblico che ne ha troppo. Si ricorda l’esempio degli ospedali calabresi che le ho appena fatto? Sappia che non è un caso isolato. Per quanto riguarda i contratti di tipo professionale essi sono attuati nel pieno rispetto delle norme vigenti e nella piena soddisfazione degli operatori. Sugli standard di personale e le loro qualifiche, poi, vale quanto previsto dai criteri di accreditamento. Noi ci atteniamo a quelli e quelli dobbiamo rispettare, pena il no all’accreditamento da parte di Asl e regioni.
Ultima questione. L’accreditamento, per l’appunto. A fine anno scade il termine (già prorogato di un anno) per la messa a regime del nuovo sistema di accreditamento varato con la finanziaria 2007. Siete pronti?
Noi sì.
Vuol dire che è il pubblico a non esserlo?
Vuole una risposta chiara?
Ovviamente.
Può andare a finire in due modi: o ci sarà un’altra proroga dei termini, oppure si tirerà a campare come si è fatto sino ad oggi.
E cioè?
Gli ospedali pubblici nella maggior parte dei casi non sono nelle condizioni strutturali e funzionali per rispondere appieno ai requisiti di accreditamento ma non si può non accreditarli. Del resto, come diceva Andreotti, “meglio tirare a campare che tirare le cuoia”.